Il futuro ha due bellissime figlie: lo sdegno e il coraggio... Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle.
sabato 23 luglio 2011
1994, Pc, Pds, Pd e l'inizio della questione morale !!!
MILANO . Ad aprire le ostilita' sulle tangenti rosse e' la Procura di Milano, fin dai primi mesi di Tangentopoli, quando nelle indagini sulle aziende comunali (Mm, Atm e Sea) e sul Piccolo Teatro spuntano i primi nomi di esponenti del Pci Pds, come Luigi Carnevale, o delle Cooperative, come Sergio Soave. I due inquisiti, finiti a San Vittore, imboccano la strada della collaborazione, consentendo al pool di costruire un "teorema" valido pero' solo per gli appalti "locali": anche il Pci Pds milanese partecipava alla spartizione delle mazzette. Con quote prestabilite: per le bustarelle del metro' , al partito sarebbe finita la stessa fetta della Dc. Tra il ' 92 e il ' 93 il pool spedisce avvisi di garanzia a piu' di un esponente nazionale, come l' onorevole Gianni Cervetti. A questo punto resta da stabilire se il Pci Pds era dentro a Tangentopoli anche in sede centrale, per gli appalti "nazionali". E proprio su questo problema, un anno fa, si apre la battaglia tra Tiziana Parenti, titolare delle indagini su Primo Greganti, e Gerardo D' Ambrosio, coordinatore del pool. "Titti la rossa" segue in particolare il filone di una tangente di 621 milioni pagata nel 1990 da Lorenzo Panzavolta, presidente della Calcestruzzi (gruppo Ferruzzi), per appalti Enel. Per lo stesso affare era prevista una bustarella doppia, 1242 milioni, destinata a Psi e Dc. Il denaro venne versato sul conto Gabbietta indicato da Greganti, arrestato il primo marzo ' 93. Secondo il Compagno G, quei soldi erano il prezzo di una consulenza per affari in Cina. Insomma, un guadagno personale. La prova? La fornisce lo stesso Greganti: "Con quella somma comprai una casa a Roma". Secondo la Parenti, pero' , i soldi finirono nelle casse centrali del Pci Pds. Quindi Titti chiede di spedire alla Camera un' autorizzazione a procedere contro il tesoriere pidiessino Marcello Stefanini. D' Ambrosio pero' , ricevute le carte, accende il computer e, con un controllo dell' anagrafe tributaria, scopre che la casa di Greganti esiste davvero. E quando il pool al completo si pronuncia sul caso Stefanini, tutti votano per l' archiviazione, tranne la Parenti che si astiene. Il problema si complica quando Italo Ghitti nega per due volte l' archiviazione, chiedendo nuove indagini, tuttora affidate a Paolo Ielo, ormai in dirittura d' arrivo. Ma intanto scoppia un altro caso: tra le carte di Greganti c' e' un versamento di 200 milioni targati Standa. Soldi versati per consulenze in Cina. L' altro filone dell' inchiesta Parenti, anch' esso passato a Ielo, si chiama Eumit. Nel mirino 1.050 milioni transitati sul conto Gabbietta nel giugno 1990. Soldi consegnati da Greganti all' amministrazione di Botteghe Oscure, che li impiego' per risanare i debiti della Ecolibri, una casa editrice gia' presieduta da Paola Occhetto. Sull' origine del denaro, Greganti cita la vendita di quote di un' azienda torinese, la Eumit, appartenenti al Pci. La Eumit venne creata dalla Ddr. Un finanziamento illecito della Stasi? Oppure un semplice falso in bilancio? L' indagine di Ielo, a quanto pare, avrebbe imboccato questa seconda pista, che farebbe passare il fascicolo a Torino. A Milano e' aperta un' altra indagine, per gli appalti delle Ferrovie, dove spuntano piu' tangenti versate da Alessandro Marzocco della Socimi a Guido Caporali, consigliere Fs di nomina Pci e grande pentito delle tangenti rosse. Caporali parla di mazzette per 230 milioni e accusa Renato Pollini, ex tesoriere del Pci, che finisce in cella. Lo stesso pentito provoca l' arresto di Fausto Bartolini, ex rappresentante del Conaco, il consorzio nazionale delle coop rosse dell' edilizia. Quindi il pm Davigo, per le tangenti Sea, chiede il rinvio a giudizio di Stefanini. Altre indagini sulle tangenti rosse sono in corso in mezza Italia: da Venezia a Palermo. Ma l' interrogativo di fondo resta aperto: i segretari politici del Pci Pds, da Occhetto a D' Alema, sapevano? Su denuncia di Craxi, a questa domanda dovra' rispondere la Procura di Roma. Salvo sorprese milanesi.
Totò DiPietro l'immobiliarista 2°parte
Quella che segue è una seria e particolareggiata ricognizione in tutte le cialtronate di cui Antonio Di Pietro – a proposito di cricche – si è reso magnifico protagonista in passato. È tutto ultra-verificato. L’ho pubblicato su Libero in tre puntate. Soltanto per malati. Ma è tutto verissimo.
Antonio Di Pietro ha sempre avuto avuto un debole per case e casette. Il problema, allora come oggi, è chi fosse a pagarle. L’allora magistrato, dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Novanta, giostrava tra quattro o cinque domicili: il primo lo pagava la moglie, ed era il cascinale di Curno; un secondo lo pagava una banca, ed era l’appartamento di Milano dietro Piazza della Scala, affittato a equo canone dal Fondo Pensioni Cariplo; un terzo lo pagava l’ex suo inquisito Antonio D’Adamo, che gli mise a disposizione una garçonnière dietro piazza Duomo fino al 1994; un quarto appartamento, a Curno, affianco al suo, lo stava finalmente pagando lui: ma coi famosi 100 milioni «prestati» dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini. Ci sarebbe anche un quinto domicilio, a esser precisi: Antonio D’Adamo, che al pari di Gorrini gli prestò altri cento milioni, gli mise a disposizione anche una suite da 5-6 milioni il mese al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto: questo dal 1989 e per almeno un anno e mezzo. Quest’ultimo fa parte del pacchetto di sterminati favori (soldi, auto per sè e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impiego per il figlio, vestiario di lusso, telefono cellulare, biglietti aerei, ombrelli, agende, penne, stock di calzettoni al ginocchio) che il duo D’Adamo-Gorrini ebbe a favorirgli via via; nulla di penalmente rilevante, sentenziò incredibilmente la Procura di Brescia una decina di anni fa: comportamenti che tuttavia avrebbero senz’altro comportato delle sanzioni disciplinari se Di Pietro non si fosse dimesso da magistrato. A esser precisi: «Fatti specifici che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare», recita una sentenza di tribunale, rimasta insuperata, in data 29 gennaio 1998.
Ma anche i retroscena di acquisti immobiliari all’apparenza normali, come quello della casa di Curno dove l’ex magistrato risiede tutt’ora, rivelano come Di Pietro fosse già Di Pietro.
Ma anche i retroscena di acquisti immobiliari all’apparenza normali, come quello della casa di Curno dove l’ex magistrato risiede tutt’ora, rivelano come Di Pietro fosse già Di Pietro.
Un salto ed eccoci al tardo 1984. A Curno, in via Lungobrembo, zona Marigolda, Di Pietro aveva adocchiato un immobile diroccato: una volta risistemato, lui e la sua futura seconda moglie, Susanna Mazzoleni, avrebbero potuto viverci assieme. Fu lei a a contattare il proprietario, Leone Zanchi, un contadino che di quel rudere non sapeva che farsene; ogni intervento diverso dalla cosiddetta «manutenzione straordinaria», infatti, gli era proibito dal piano regolatore. Accettò dunque di vendere il casolare per trentacinque milioni, e il 17 aprile 1985 Susanna Mazzoleni ereditò la concessione edilizia richiesta dallo Zanchi pochi giorni prima, come detto una «manutenzione straordinaria».
La provvidenza farà il resto. La cascina verrà sventrata, ugualmente, dopo l’accidentale crollo di un muro che nottetempo trascinerà con sé tutta la casa. Questo, almeno, scrisse l’architetto Angelo Gotti in data 7 maggio, giorno seguente all’inizio dei lavori che curava personalmente. «Del vecchio fabbricato», notarono due periti comunali, «è rimasto solo il muro a est, la restante parte non c’è più». Susanna Mazzoleni sarà quindi costretta a chiedere di ricostruire tutta la cascina come Zanchi non aveva potuto fare. La provvidenza, appunto. Va da sé che l’ex proprietario andò fuori dalla grazia di Dio, e cominciò a piantar grane tirando in ballo anche Di Pietro. Sulla scrivania dell’assessore competente, Roberto Arnoldi, si materializzò un esposto anonimo di cui non venne fatta copia, né venne passato alle autorità, né finì nel cestino: Arnoldi lo spedì direttamente ai coniugi Di Pietro. Non solo. Arnoldi si fece stranamente attivo e preparò una missiva diretta ai gruppi consiliari, liquidando l’ex proprietario come un beota e parlando di «strumentalizzazione» ai danni del magistrato. Scrisse il 22 maggio: «Di Pietro non risulta tra gli interessati alla concessione, né legato agli stessi da vincoli di parentela». Una bella forzatura, visto che Di Pietro in quella casa andrà a viverci col figlio e con la futura moglie. Ma i particolari curiosi sono altri. Il primo si ricava dalla missiva di Arnoldi: non è lui, infatti, a scriverla, bensì è direttamente l’archietto Angelo Gotti, teste di parte e incaricato dalla Mazzoleni di ristrutturare il cascinale. Assurdo. «Caro Arnoldi», rivela difatti una nota erroneamente dimenticata, «ti trasmetto copia della risposta all’anonimo… non avendo gli esatti indirizzi, ho ritenuto opportuno impostare la risposta in modo tale che tu debba solo far preparare la prima pagina». Fantastico. Secondo particolare curioso: il nome di Arnoldi forse a qualcuno suonerà familiare, perchè nel 1997 diventerà capo di gabinetto dei Lavori pubblici presieduti da Di Pietro. Trattasi di «uel certo Arnoldi», come lo definì l’ex magistrato Mario Cicala, di cui Arnoldi oltretutto prese il posto, che per qualche tempo fu anche una sorta di portavoce di Antonio Di Pietro nei rapporti con la Stampa.
Ma torniamo al casolare. Era passato un po’ di tempo e l’avvocato Mario Benedetti, richiesto di un parere, si dichiarò favorevole alla variante chiesta da Susanna Mazzoleni: purché rispettasse le volumetrie preesistenti. Bocciò, invece, la pretesa costruzione di una serie di garage e lasciò intravedere, comunque fosse andata, la possibilità di una sanatoria edilizia.
I lavori proseguirono a dispetto di qualche rogna. Il sindaco di Curno, Franco Gasperini, si ritrovò due rapporti (16 e 19 dicembre 1988) dove si rilevava «una baracca di legno alta tre metri e mezzo senza autorizzazione del sindaco, d’altra parte mai richiesta». È il capanno degli attrezzi già caro a Tonino Di Pietro, una sorta di leggenda dei tempi di Mani pulite. Il sindaco a quel punto chiese di consultare la «pratica Mazzoleni – Di Pietro», ma «nella ricerca si verificava che era stata fatta un’ulteriore richiesta, del proprietario, di una piscina», scrisse il 30 dicembre, «ma tale fascicolo non veniva ritrovato». Il rapporto di un agente spiegava che risultasse «asportato o trafugato». E’ tutto nero su bianco.
Ma Di Pietro è Di Pietro. Il 3 gennaio 1989 intervenne con una lettera delle sue: «Non ho mai intrattenuto rapporti con alcuno dell’amministrazione comunale… Invito a voler evitare di considerarmi inopinatamente parte in causa… sono venuto a conoscenza che il predetto Zanchi avrebbe riportato frasi calunniose nei miei confronti… sono a richiedervi copia dell’esposto al fine di provvedere a tutelare la mia onorabilità nelle sedi più opportune». Querelava anche allora. E spiegava di non conoscere l’assessore Roberto Arnoldi: anche se nel 1996 lo sceglierà come suo capo di Gabinetto ai Lavori Pubblici.
I documenti scomparsi comunque riapparvero improvvisamente, anche se una nuova perizia, purtroppo, confermava « una costruzione in legno con caratteristiche strutturali tali da violare le norme». Il 25 gennaio venne chiamato a esprimersi un altro avvocato, Riccardo Olivati: dichiarò «sconcerto» per le «sparizioni strane e riapparizioni magiche di documenti» e definì la citata lettera di Arnoldi (quella in realtà fatta scrivere all’architetto Gotti) come «prassi da non ripetere per evitare sospetti di parzialità». E Di Pietro? C’entrava qualcosa? Olivati scrisse che andava eventualmente «segnalato all’autorità giudiziaria», spiegò, solo se «risultasse con prova certa… [che] ha contribuito alla costruzione materiale del manufatto». Il capanno di legno, cioè.
Costruzione «materiale» del capanno di legno. Per fortuna che non era ancora uscita un’agiografia su Di Pietro del 1992 – scritta da giornalisti amici suoi per Pironti editore – laddove si legge proprio questo: «Nella villetta dove abita, a Curno, fin dall’inizio ha progettato e poi realizzato con le proprie mani un capanno degli attrezzi che è il suo regno assoluto e intoccabile».
Per la cronaca: la villetta ha due piani, otto stanze e una taverna.
La provvidenza farà il resto. La cascina verrà sventrata, ugualmente, dopo l’accidentale crollo di un muro che nottetempo trascinerà con sé tutta la casa. Questo, almeno, scrisse l’architetto Angelo Gotti in data 7 maggio, giorno seguente all’inizio dei lavori che curava personalmente. «Del vecchio fabbricato», notarono due periti comunali, «è rimasto solo il muro a est, la restante parte non c’è più». Susanna Mazzoleni sarà quindi costretta a chiedere di ricostruire tutta la cascina come Zanchi non aveva potuto fare. La provvidenza, appunto. Va da sé che l’ex proprietario andò fuori dalla grazia di Dio, e cominciò a piantar grane tirando in ballo anche Di Pietro. Sulla scrivania dell’assessore competente, Roberto Arnoldi, si materializzò un esposto anonimo di cui non venne fatta copia, né venne passato alle autorità, né finì nel cestino: Arnoldi lo spedì direttamente ai coniugi Di Pietro. Non solo. Arnoldi si fece stranamente attivo e preparò una missiva diretta ai gruppi consiliari, liquidando l’ex proprietario come un beota e parlando di «strumentalizzazione» ai danni del magistrato. Scrisse il 22 maggio: «Di Pietro non risulta tra gli interessati alla concessione, né legato agli stessi da vincoli di parentela». Una bella forzatura, visto che Di Pietro in quella casa andrà a viverci col figlio e con la futura moglie. Ma i particolari curiosi sono altri. Il primo si ricava dalla missiva di Arnoldi: non è lui, infatti, a scriverla, bensì è direttamente l’archietto Angelo Gotti, teste di parte e incaricato dalla Mazzoleni di ristrutturare il cascinale. Assurdo. «Caro Arnoldi», rivela difatti una nota erroneamente dimenticata, «ti trasmetto copia della risposta all’anonimo… non avendo gli esatti indirizzi, ho ritenuto opportuno impostare la risposta in modo tale che tu debba solo far preparare la prima pagina». Fantastico. Secondo particolare curioso: il nome di Arnoldi forse a qualcuno suonerà familiare, perchè nel 1997 diventerà capo di gabinetto dei Lavori pubblici presieduti da Di Pietro. Trattasi di «uel certo Arnoldi», come lo definì l’ex magistrato Mario Cicala, di cui Arnoldi oltretutto prese il posto, che per qualche tempo fu anche una sorta di portavoce di Antonio Di Pietro nei rapporti con la Stampa.
Ma torniamo al casolare. Era passato un po’ di tempo e l’avvocato Mario Benedetti, richiesto di un parere, si dichiarò favorevole alla variante chiesta da Susanna Mazzoleni: purché rispettasse le volumetrie preesistenti. Bocciò, invece, la pretesa costruzione di una serie di garage e lasciò intravedere, comunque fosse andata, la possibilità di una sanatoria edilizia.
I lavori proseguirono a dispetto di qualche rogna. Il sindaco di Curno, Franco Gasperini, si ritrovò due rapporti (16 e 19 dicembre 1988) dove si rilevava «una baracca di legno alta tre metri e mezzo senza autorizzazione del sindaco, d’altra parte mai richiesta». È il capanno degli attrezzi già caro a Tonino Di Pietro, una sorta di leggenda dei tempi di Mani pulite. Il sindaco a quel punto chiese di consultare la «pratica Mazzoleni – Di Pietro», ma «nella ricerca si verificava che era stata fatta un’ulteriore richiesta, del proprietario, di una piscina», scrisse il 30 dicembre, «ma tale fascicolo non veniva ritrovato». Il rapporto di un agente spiegava che risultasse «asportato o trafugato». E’ tutto nero su bianco.
Ma Di Pietro è Di Pietro. Il 3 gennaio 1989 intervenne con una lettera delle sue: «Non ho mai intrattenuto rapporti con alcuno dell’amministrazione comunale… Invito a voler evitare di considerarmi inopinatamente parte in causa… sono venuto a conoscenza che il predetto Zanchi avrebbe riportato frasi calunniose nei miei confronti… sono a richiedervi copia dell’esposto al fine di provvedere a tutelare la mia onorabilità nelle sedi più opportune». Querelava anche allora. E spiegava di non conoscere l’assessore Roberto Arnoldi: anche se nel 1996 lo sceglierà come suo capo di Gabinetto ai Lavori Pubblici.
I documenti scomparsi comunque riapparvero improvvisamente, anche se una nuova perizia, purtroppo, confermava « una costruzione in legno con caratteristiche strutturali tali da violare le norme». Il 25 gennaio venne chiamato a esprimersi un altro avvocato, Riccardo Olivati: dichiarò «sconcerto» per le «sparizioni strane e riapparizioni magiche di documenti» e definì la citata lettera di Arnoldi (quella in realtà fatta scrivere all’architetto Gotti) come «prassi da non ripetere per evitare sospetti di parzialità». E Di Pietro? C’entrava qualcosa? Olivati scrisse che andava eventualmente «segnalato all’autorità giudiziaria», spiegò, solo se «risultasse con prova certa… [che] ha contribuito alla costruzione materiale del manufatto». Il capanno di legno, cioè.
Costruzione «materiale» del capanno di legno. Per fortuna che non era ancora uscita un’agiografia su Di Pietro del 1992 – scritta da giornalisti amici suoi per Pironti editore – laddove si legge proprio questo: «Nella villetta dove abita, a Curno, fin dall’inizio ha progettato e poi realizzato con le proprie mani un capanno degli attrezzi che è il suo regno assoluto e intoccabile».
Per la cronaca: la villetta ha due piani, otto stanze e una taverna.
Verso la fine degli anni Ottanta il nostro magistrato non aveva una fama stupenda: certi suoi trascorsi l’avevano accompagnato sin lì. «Tu gli giri sempre intorno, ai politici, ma non li prendi mai» gli diceva per esempio Elio Veltri, che lo conobbe in quel periodo e che scriverà di lì a poco: «Confesso che qualche volta ho dei dubbi, perché nelle inchieste non arriva mai ai politici. I loro furti sono così evidenti e la loro certezza di impunità così sfacciata, che si fatica a pensare che non si possa incastrarli».
Le perplessità, condivise da molti cronisti giudiziari, erano legate perlopiù alla rumorosissima inchiesta sull’Atm (Azienda Trasporti milanesi) di cui Presidente era il democristiano Maurizio Prada e vicepresidente il socialista Sergio Radaelli. Tra le sigle di un libro mastro delle tangenti spiccavano in particolare «Riva» (che i più ricollegarono a Luciano Riva Cambrin, uomo di Prada) e poi «Radaelli» e «Rad» che era associato spesso a certo «Lupi» (che i più ricollegarono ad Attilio Lupi, uomo di Radaelli). Dunque Prada e Radaelli, pensarono tutti: si era profilato dunque il rischio che Di Pietro incontrasse di giorno gli amici che già frequentava la sera. Prada e Radaelli, infatti, facevano parte di un giro di frequentazioni ad ampio raggio (il sindaco Pillitteri, l’ex questore Improta, l’industriale Maggiorelli, il capo dei vigili Rea tra moltissimi altri) che aveva fatto tappa anche nella casa di Curno dell’allora magistrato, quella descritta nella puntata di ieri. Non mancava, ovviamente, l’industriale Giancarlo Gorrini e tantomeno «Dadone», ossia il costruttore Antonio D’Adamo: che fanno, insieme, più di duecento milioni di «prestito» beneficiato da Di Pietro. E son valori.
Morale: tre giorni dopo che l’impaziente «Repubblica» aveva esplicitato i nomi che tutti aspettavano (Prada e Radaelli) Di Pietro decise di stralciare le loro posizioni dalla sua inchiesta. La posizione di Radaelli, in particolare, sarà poi archiviata su richiesta di Di Pietro. Le responsabilità del cassiere socialista saranno appurate solo qualche anno dopo. Per farla breve: Di Pietro archiviò, ma Radaelli era colpevole.
Perchè questo racconto? Per delineare, quantomeno, un conflitto d’interesse: proprio in quei giorni, quando il gip non aveva ancora accolto l’archiviazione chiesta da Di Pietro per Radaelli, l’allora magistrato ebbe a disposizione un appartamento concesso a equo canone dal Fondo pensioni Cariplo per 234 mila lire il mese, comprese le spese di ristrutturazione: questo in Via Andegari, dietro Piazza della Scala. Un sogno. Siamo nell’ottobre 1988. L’ex sindaco Paolo Pillitteri ha raccontato che Di Pietro si rivolse dapprima a lui, senza successo, ma che gli consigliò di chiedere a Radaelli che allora era consigliere della Cariplo in predicato di vicepresidenza.
Di fatto andò così: il direttore della Cariplo ebbe la dritta per trovare casa a Di Pietro (non si sa ufficialmente da chi) e incaricò un funzionario di provvedere. Quest’ultimo accompagnò Di Pietro in via Andegari, e tutto bene. Venne preparato il contratto che poi venne chiuso in cassaforte. Come si dice: alla luce del sole.
I 20 milioni circa delle spese di ristrutturazione vennero ricaricati sull’equo canone, che salì da poco più di 100 mila il mese a 234 mila. L’assegnazione fu anomala a dir poco: non tanto perché venne ignorata ogni graduatoria d’attesa (nell’Italia dei favori è normale, anche se illecito) ma perché venne saltata di netto l’apposita commissione affittanze, che si limitò a ratificare una decisione calata dall’alto. Il rapporto è ancora lì, anche se non reca il nome del destinatario: è rimasto in bianco.
Parentesi: agli appartamenti del Fondo pensioni Cariplo, allora più di oggi, accedevano solo i raccomandati di ferro. Tra i magistrati, per dire, ne ebbe uno solo il procuratore generale della Repubblica Giulio Catelani. La maggior parte dei magistrati normali (quelli che non ritengono di dover pagare un affitto normale, cioè) a Milano sono raggruppati nelle case comunali di viale Montenero 8. Il Fondo pensioni, inoltre, è pubblico. È regolato con decreto del presidente della Repubblica. Insomma: fu un privilegio da signori concesso dalla Cariplo di Radaelli, grande miracolato dell’inchiesta Atm. E’ un fatto. Penalmente irrilevante, direbbe Di Pietro.
Le perplessità, condivise da molti cronisti giudiziari, erano legate perlopiù alla rumorosissima inchiesta sull’Atm (Azienda Trasporti milanesi) di cui Presidente era il democristiano Maurizio Prada e vicepresidente il socialista Sergio Radaelli. Tra le sigle di un libro mastro delle tangenti spiccavano in particolare «Riva» (che i più ricollegarono a Luciano Riva Cambrin, uomo di Prada) e poi «Radaelli» e «Rad» che era associato spesso a certo «Lupi» (che i più ricollegarono ad Attilio Lupi, uomo di Radaelli). Dunque Prada e Radaelli, pensarono tutti: si era profilato dunque il rischio che Di Pietro incontrasse di giorno gli amici che già frequentava la sera. Prada e Radaelli, infatti, facevano parte di un giro di frequentazioni ad ampio raggio (il sindaco Pillitteri, l’ex questore Improta, l’industriale Maggiorelli, il capo dei vigili Rea tra moltissimi altri) che aveva fatto tappa anche nella casa di Curno dell’allora magistrato, quella descritta nella puntata di ieri. Non mancava, ovviamente, l’industriale Giancarlo Gorrini e tantomeno «Dadone», ossia il costruttore Antonio D’Adamo: che fanno, insieme, più di duecento milioni di «prestito» beneficiato da Di Pietro. E son valori.
Morale: tre giorni dopo che l’impaziente «Repubblica» aveva esplicitato i nomi che tutti aspettavano (Prada e Radaelli) Di Pietro decise di stralciare le loro posizioni dalla sua inchiesta. La posizione di Radaelli, in particolare, sarà poi archiviata su richiesta di Di Pietro. Le responsabilità del cassiere socialista saranno appurate solo qualche anno dopo. Per farla breve: Di Pietro archiviò, ma Radaelli era colpevole.
Perchè questo racconto? Per delineare, quantomeno, un conflitto d’interesse: proprio in quei giorni, quando il gip non aveva ancora accolto l’archiviazione chiesta da Di Pietro per Radaelli, l’allora magistrato ebbe a disposizione un appartamento concesso a equo canone dal Fondo pensioni Cariplo per 234 mila lire il mese, comprese le spese di ristrutturazione: questo in Via Andegari, dietro Piazza della Scala. Un sogno. Siamo nell’ottobre 1988. L’ex sindaco Paolo Pillitteri ha raccontato che Di Pietro si rivolse dapprima a lui, senza successo, ma che gli consigliò di chiedere a Radaelli che allora era consigliere della Cariplo in predicato di vicepresidenza.
Di fatto andò così: il direttore della Cariplo ebbe la dritta per trovare casa a Di Pietro (non si sa ufficialmente da chi) e incaricò un funzionario di provvedere. Quest’ultimo accompagnò Di Pietro in via Andegari, e tutto bene. Venne preparato il contratto che poi venne chiuso in cassaforte. Come si dice: alla luce del sole.
I 20 milioni circa delle spese di ristrutturazione vennero ricaricati sull’equo canone, che salì da poco più di 100 mila il mese a 234 mila. L’assegnazione fu anomala a dir poco: non tanto perché venne ignorata ogni graduatoria d’attesa (nell’Italia dei favori è normale, anche se illecito) ma perché venne saltata di netto l’apposita commissione affittanze, che si limitò a ratificare una decisione calata dall’alto. Il rapporto è ancora lì, anche se non reca il nome del destinatario: è rimasto in bianco.
Parentesi: agli appartamenti del Fondo pensioni Cariplo, allora più di oggi, accedevano solo i raccomandati di ferro. Tra i magistrati, per dire, ne ebbe uno solo il procuratore generale della Repubblica Giulio Catelani. La maggior parte dei magistrati normali (quelli che non ritengono di dover pagare un affitto normale, cioè) a Milano sono raggruppati nelle case comunali di viale Montenero 8. Il Fondo pensioni, inoltre, è pubblico. È regolato con decreto del presidente della Repubblica. Insomma: fu un privilegio da signori concesso dalla Cariplo di Radaelli, grande miracolato dell’inchiesta Atm. E’ un fatto. Penalmente irrilevante, direbbe Di Pietro.
Quella dell’appartamento è una vecchia polemica. Di fronte alle prime malizie, nel luglio 1993, il procuratore capo Borrelli replicò che al Tribunale di Milano esisteva un ufficio che procurava case «ai magistrati che vengono da fuori». Tale ufficio risulta inesistente, e vi è comunque da escludere che fosse adibito a trovar casa ai figli dei magistrati: difatti in via Andegari c’era andato a stare Cristiano Di Pietro, e questo nonostante il contratto vietasse tassativamente qualsiasi tipo di subaffitto. Il magistrato risiedeva appunto a Curno e nel bilocale dormiva solo ogni tanto, quando non tornava dalla moglie o quando non preferiva la pur disponibile garçonnière di D’Adamo, distante poche centinaia di metri. In sostanza, Di Pietro aveva tre case.
La sua difesa, nella circostanza, è stata davvero goffa. «Radaelli», disse in un libro, «non c’entra nulla nella storia della casa… è abitudine, qui alla Procura, che quando viene un nuovo magistrato gli si cerchi una casa». Falso, come visto: Di Pietro ufficialmente stava a Curno. Di seguito ammise di essersi rivolto a Pillitteri e poi alla Cariplo (senza menzionare Radaelli) ma per una casa dove potesse abitare il figlio: «A diciotto anni decisi di prendergli una casa, non potendola comprare». Strano anche questo: proprio in quel periodo si era fatto «prestare» i famosi cento milioni dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini sempre per comprare una casa al figlio: Di Pietro l’ha messo a verbale. Difatti la comprò: un lotto a mutuo agevolato a Curno (accanto alla sua, in via Lungobrembo) per centocinquanta milioni in contanti, mai passati per banca: alla luce del sole anche questo. In sintesi, le case sono quattro. Una, a Curno, la pagava la moglie, perlomeno allora. Un’altra, in via Andegari, la pagava la Cariplo di Radaelli. Un’altra ancora, utilizzata da altri come rifugio per scappatelle, era la garçonnière di via Agnello 5, con entrata anche da via Santa Radegonda 8, sopra la Edilgest di Antonio D’Adamo: quaranta metri quadri al sesto piano, all’interno di una torretta piazzata in mezzo a un terrazzone con vista sul Duomo. All’interno, una boiserie rivestita in legno, camera da letto, soggiornino e zona pranzo semicircolare. D’Adamo è l’ex inquisito che «prestò» a Di Pietro altri cento milioni, oltrechè elargirgli vestiti alla boutique Tincati di corso Buenos Aires, un telefono, una Lancia Dedra e altri infiniti privilegi. Aggiungiamo (e fanno cinque) la disponibilità di una suite al recidence Mayfair di via Sicilia 183, Roma, dietro via Veneto: roba da cinque o sei milioni al mese pagati da D’Adamo che staccava assegni anche per i relativi biglietti aerei Milano-Roma-Milano (una quindicina) acquistati all’agenzia Gulliver di via San Giovanni sul Muro.
«La Cariplo», si legge in un vecchio memoriale di Antonio Di Pietro, «ha reso pubblico, con il mio consenso, l’entità effettiva del canone, a dimostrazione della falsità delle accuse di favoritismo». E queste sono balle spaziali. I dati sull’appartamento, in realtà, sono noti solo perché tre giornalisti (lo scrivente tra questi) ci scavarono per mesi. Non fu certo Di Pietro a rendere noto lo schedario degli immobili Cariplo a pagina 531: contratto intestato a Di Pietro Antonio, 65 metri quadri calpestabili (70 commerciali), 230 metri cubi a un canone annuo di 2.817.039, ossia 234.753 il mese. Infine: non è mai stato chiaro perchè Di Pietro, se tutto era davvero lecito o normale, non appena la storia prese a circolare abbandonò l’appartamento in fretta e furia.
La sua difesa, nella circostanza, è stata davvero goffa. «Radaelli», disse in un libro, «non c’entra nulla nella storia della casa… è abitudine, qui alla Procura, che quando viene un nuovo magistrato gli si cerchi una casa». Falso, come visto: Di Pietro ufficialmente stava a Curno. Di seguito ammise di essersi rivolto a Pillitteri e poi alla Cariplo (senza menzionare Radaelli) ma per una casa dove potesse abitare il figlio: «A diciotto anni decisi di prendergli una casa, non potendola comprare». Strano anche questo: proprio in quel periodo si era fatto «prestare» i famosi cento milioni dall’ex inquisito Giancarlo Gorrini sempre per comprare una casa al figlio: Di Pietro l’ha messo a verbale. Difatti la comprò: un lotto a mutuo agevolato a Curno (accanto alla sua, in via Lungobrembo) per centocinquanta milioni in contanti, mai passati per banca: alla luce del sole anche questo. In sintesi, le case sono quattro. Una, a Curno, la pagava la moglie, perlomeno allora. Un’altra, in via Andegari, la pagava la Cariplo di Radaelli. Un’altra ancora, utilizzata da altri come rifugio per scappatelle, era la garçonnière di via Agnello 5, con entrata anche da via Santa Radegonda 8, sopra la Edilgest di Antonio D’Adamo: quaranta metri quadri al sesto piano, all’interno di una torretta piazzata in mezzo a un terrazzone con vista sul Duomo. All’interno, una boiserie rivestita in legno, camera da letto, soggiornino e zona pranzo semicircolare. D’Adamo è l’ex inquisito che «prestò» a Di Pietro altri cento milioni, oltrechè elargirgli vestiti alla boutique Tincati di corso Buenos Aires, un telefono, una Lancia Dedra e altri infiniti privilegi. Aggiungiamo (e fanno cinque) la disponibilità di una suite al recidence Mayfair di via Sicilia 183, Roma, dietro via Veneto: roba da cinque o sei milioni al mese pagati da D’Adamo che staccava assegni anche per i relativi biglietti aerei Milano-Roma-Milano (una quindicina) acquistati all’agenzia Gulliver di via San Giovanni sul Muro.
«La Cariplo», si legge in un vecchio memoriale di Antonio Di Pietro, «ha reso pubblico, con il mio consenso, l’entità effettiva del canone, a dimostrazione della falsità delle accuse di favoritismo». E queste sono balle spaziali. I dati sull’appartamento, in realtà, sono noti solo perché tre giornalisti (lo scrivente tra questi) ci scavarono per mesi. Non fu certo Di Pietro a rendere noto lo schedario degli immobili Cariplo a pagina 531: contratto intestato a Di Pietro Antonio, 65 metri quadri calpestabili (70 commerciali), 230 metri cubi a un canone annuo di 2.817.039, ossia 234.753 il mese. Infine: non è mai stato chiaro perchè Di Pietro, se tutto era davvero lecito o normale, non appena la storia prese a circolare abbandonò l’appartamento in fretta e furia.
All’associazione blindata che gestisce i soldi dell’Italia dei valori – sulla quale sta indagando una procura, anzi due – Antonio Di Pietro ha da tempo aggiunto un terzo soggetto economico: è la società An.To.Cri., una Srl con a capo ovviamente se stesso e come socia l’onnipresente tesoriera Silvana Mura più il suo compagno (o ex compagno) Claudio Belotti, medesimo personaggio cui è intestato l’affitto uno degli appartamenti romani attribuito alla «cricca». L’oggetto sociale della An.To.Cri. Srl sono acquisti immobiliari a raffica. Per capire di che cosa si sta parlando c’è solo da azzardare un riepilogo di tutta l’impressionante sequenza partitica & societaria & familiare & immobiliare dell’uomo che seguita, ancor oggi, a sventolare il vessillo del conflitto d’interessi e della lotta alle commistioni tra politica e affari.
1) Di Pietro nel 1999 acquista due appartamenti tra loro adiacenti a Busto Arsizio – diverranno uno solo – per complessivi 370 metri quadri. Costo: 845.166.000 lire. Di Pietro ha sostenuto di averli rivenduti nel 2004 per 655.533,46 euro.
2) Di Pietro, nello stesso anno, 1999, acquista un bilocale a Bruxelles di 80 metri quadri. Costo: 204 milioni di lire.
3) Di Pietro il 3 gennaio 2002 acquista un appartamento a Roma, in via Merulana, di 180 metri quadri. Costo: circa 400.000 euro. È dove vive durante i soggiorni romani. Il 18 novembre 2002 risulta emessa una fattura di 7200 euro relativa a «Lavori per vostro ordine e conto svolti nella sede sociale di via Merulana 99 Roma, imbiancatura e stuccatura pareti, riparazione idraulica». La fattura non è intestata a Di Pietro, ma a «Italia dei Valori, via Milano 14, Busto Arsizio, Varese». È la vecchia sede del partito. Di Pietro ha sostenuto su «Libero» il 9 gennaio 2009: «A Roma sono proprietario dell’appartamento di via Merulana ove abito quando mi reco lì per ragioni legate al mio lavoro di parlamentare. L’ho comprato prima dei rimborsi elettorali, nel 2001, per 800 milioni di vecchie lire». Ha sbagliato l’anno: l’acquisto è del 2002, quando già percepiva gli odiati rimborsi elettorali.
4) Cristiano Di Pietro, figlio di Antonio, il 19 marzo 2003 acquista o diviene proprietario con sua moglie Lara Di Pietro – è il cognome da nubile, si chiama Di Pietro anche lei – di un attico di 173 metri quadri a Montenero di Bisaccia. Costo: circa 200.000 euro. Antonio Di Pietro ha sostenuto che suo figlio l’ha acquistato grazie alla vendita di un immobile posseduto a Curno, ma dell’operazione, così come descritta, non risulta per ora traccia catastale.
5) Di Pietro il 28 marzo 2003 acquista un appartamento a Bergamo in via dei Partigiani, in pieno centro, di 190 metri quadri. Nello stesso giorno la moglie Susanna Mazzoleni compra un monolocale di 48 metri situato sullo stesso piano. A ciò si aggiungono due cantine e un garage. Costo stimato: tra i 700 e gli 800.000 euro.
6) Di Pietro il 1° aprile 2003 costituisce la società Srl An.To. Cri. (dalle iniziali dei suoi tre figli Anna, Toto e Cristiano) con sede a Bergamo in via Ghislanzoni. Capitale versato: 50.000 euro. Socio unico: Di Pietro. L’anno dopo, nel 2004, si aggiungeranno i consiglieri Silvana Mura e Claudio Belotti. Obiettivo non dichiarato: gestione immobiliare. Di Pietro è quindi a capo dell’associazione privata Italia dei Valori, del partito Italia dei Valori e di questa società di gestione immobiliare. Las Mura lo segue a ruota.
7) Di Pietro il 24 luglio 2004 manda a casa il socio Mario Di Domenico dall’associazione privata Italia dei Valori e lo sostituisce con la moglie Susanna Mazzoleni. A gestire l’intero finanziamento pubblico del partito Italia dei Valori sono quindi i coniugi più Silvana Mura. Si parla di rimborsi per 250.000 euro nel 2001, 2 milioni nel 2002, 400.000 euro all’anno dal 2001 al 2005 e 10.726.000 euro nel 2006. Quasi 20 milioni di euro totali aggiornati all’anno 2007.
8) La An.To.Cri. (cioè Di Pietro, Mura e compagno) il 20 aprile 2004 acquista un appartamento a Milano, in via Felice Casati, di 188 metri quadri. Costo: 614.500 euro. Subito dopo l’acquisto, la società affitta l’appartamento al partito dell’Italia dei Valori per 2800 euro al mese, cifra che va a coprire e superare la rata mensile del mutuo che intanto è stato acceso dalla stessa An.To.Cri. Antonio Di Pietro cioè affitta ad Antonio Di Pietro e Silvana Mura versa soldi a Silvana Mura: i soldi sono sempre quelli del finanziamento pubblico. In concreto significa che Di Pietro, cioè la An.To.Cri., con il denaro pubblico del partito, cioè dei contribuenti, compra casa per sé.
9) La An.To.Cri. il 7 giugno 2005 acquista un appartamento a Roma, in via Principe Eugenio, di 235 metri quadri. Costo: 1.045.000 euro. Subito dopo la società ripete l’operazione milanese: affitta l’appartamento al partito per 54.000 euro annui, che coprono il mutuo acceso nel frattempo. Di Pietro acquista e affitta a se stesso: ma con soldi pubblici. In seguito di articoli di stampa e interpellanze parlamentari che scopriranno l’altarino, Di Pietro nel 2007 deciderà di vendere l’immobile a 1.115.000 euro. Il giochino però continua tranquillamente per l’appartamento milanese di via Casati. A tutt’oggi.
10) Susanna Mazzoleni il 23 dicembre 2005 acquista un appartamento di metratura imprecisata a Bergamo in via del Pradello, in centro.
Nello stesso giorno e nella stessa città e nello stesso stabile acquista un appartamento di 90 metri. Costo complessivo: 400 o 500.000 euro.
Nello stesso giorno e nella stessa città e nello stesso stabile acquista un appartamento di 90 metri. Costo complessivo: 400 o 500.000 euro.
11) Di Pietro il 16 marzo 2006 acquista un appartamento di 178 metri quadri a Bergamo, in centro, in via Antonio Locatelli. Costo: 261.661 euro, un incredibile affare regalato dalla cartolarizzazione degli immobili dell’Inail. L’acquisto in precedenza era stato condotto per conto di Di Pietro dal citato Claudio Belotti, il citato compagno di Silvana Mura, e l’aggiudicazione era passata attraverso un ricorso al Tar e un altro al Consiglio di Stato. Anche qui si ripete il giochino: Di Pietro affitta l’appartamento al partito Italia dei Valori, cioè a se stesso, che lo ripaga con soldi pubblici.
12) Di Pietro il 6 aprile 2007 acquista una masseria a Montenero di Bisaccia posta di fronte a quella dov’è nato e che pure gli appartiene. Costo comprensivo di 2 ettari di terra: 70.000 euro per l’acquisto e circa 150.000 per la ristrutturazione. Gestisce l’operazione un’immobiliare del posto che si chiama Di Pietro: nessuna parentela, ma il proprietario è stato consigliere provinciale dell’Italia dei Valori.
13 ) Di Pietro nel 2007 procede alla totale ristrutturazione della masseria di Montenero che il padre Giuseppe gli ha lasciato in eredità negli anni Ottanta. L’ampliamento, sino a 450 metri quadri, prevede una spesa non inferiore ai 300.000 euro. Nella stessa zona, Di Pietro possiede 33 «frazionamenti», ereditati o acquistati da parenti e familiari, per complessivi 16 ettari. I suoi terreni confinano inoltre con quelli che la sorella Concettina ha ricevuto a sua volta in eredità dalla famiglia.
La recente iscrizione di Antonio Di Pietro all’albo degli imprenditori agricoli gli consente, nelle transazioni immobiliari, di scalare le tasse, scendendo dal 20 per cento anche fino all’1.
La recente iscrizione di Antonio Di Pietro all’albo degli imprenditori agricoli gli consente, nelle transazioni immobiliari, di scalare le tasse, scendendo dal 20 per cento anche fino all’1.
14) Cristiano Di Pietro, figlio di Antonio, nel 2007 acquista due lotti di terreno totalmente edificabile di 700 metri quadri a Montenero di Bisaccia, valutabili in una villa di 500 metri quadri posta su due livelli. Costo del terreno: 150.000 euro.
15) Di Pietro nel 2008 acquista un appartamento a Milano, in piazza Dergano, di 60 metri quadri. Costo: da 250 a 350.000 euro.
16) Susanna Mazzoleni, lo ricordiamo per completezza, nel 1985 acquistò una casa con giardino a Curno (Bergamo) in via Lungobrembo. Costo del rudere prima di ristrutturarlo: 38 milioni di lire. La storia di quel rudere l’abbiamo raccontata nella prima puntata.
17) Antonio Di Pietro nel 1989, proprio affianco e sempre a Curno in via Lungobrembo, acquistò una villetta a schiera dove visse per qualche tempo suo figlio Cristiano, che in precedenza risultava locatario – irregolare, perché ogni forma di subaffitto era proibita – nel famoso appartamento milanese di via Andegari affittato dal Fondo pensioni Cariplo del socialista inquisito Sergio Radaelli. In una lettera a «Libero», sempre il 9 gennaio 2009, Di Pietro ha precisato che la villetta a schiera di via Lungobrembo è stata «acquistata alla fine degli anni Ottanta e quindi per definizione con soldi non del partito». È vero. I soldi infatti erano dell’inquisito Giancarlo Gorrini (condannato per appropriazione indebita) e corrispondevano al famoso «prestito» di 100 milioni cui si aggiunsero i 100 prestati da Antonio D’Adamo al quale pure Di Pietro si era rivolto parlando dell’acquisto di una casa. Poiché Di Pietro non l’ha scritto, si indica anche il prezzo della villetta: 150 milioni di lire. Ne abbiamo parlato nella seconda puntata.
Ora: i cosiddetti conti della serva andrebbero sempre evitati. Ci sarebbe da conoscere con maggior precisione i prezzi degli immobili, quelli delle ristrutturazioni, il giochino dei mutui e degli autoaffitti, senza contare ciò che non si conosce. Ci sarebbe poi da sapere o da chiarire – perché Di Pietro non l’ha chiarito, non ritiene di doverlo fare, benché personaggio pubblico – il suo possibile ruolo di capofamiglia negli acquisti di case e di terreni da parte dei figli e della moglie. Susanna Mazzoleni è un avvocato benestante, ma il figlio Cristiano è un consigliere provinciale che cominciò a comprare case quando aveva lo stipendio di poliziotto. E comunque fare conti nelle tasche altrui comporterebbe anche il conoscere il tenore di vita di un nucleo complessivo che comprende una coppia, tre figli e un’ex moglie. Pur generica, l’opinione di Di Pietro in merito è stata questa: «Alcuni giocano, altri speculano, altri evadono le tasse e altri ancora girano il mondo o se la godono e si divertono. Io ho preferito e preferisco fare la formichina come mi hanno insegnato i miei genitori». Tuttavia, secondo il il 740 dipietresco dal 1996 a oggi, ha guadagnato in tutto 1 milione di euro netti e ne ha dichiarati circa 200.000 l’anno. Al milione vanno aggiunti i circa 700.000 euro ottenuti dalle querele che ha sporto (e vinto) nonché 954.317.014 lire (praticamente un miliardo) incassati per una donazione della contessa Malvina Borletti una decina di anni fa: soldi che dovevano servire per attività politiche – espresso desiderio della contessa – ma che Di Pietro utilizzò per comprarci delle case. Comunque la si metta, alla luce del giro immobiliare di cui sopra, i conti faticano a tornare.
Ora: i cosiddetti conti della serva andrebbero sempre evitati. Ci sarebbe da conoscere con maggior precisione i prezzi degli immobili, quelli delle ristrutturazioni, il giochino dei mutui e degli autoaffitti, senza contare ciò che non si conosce. Ci sarebbe poi da sapere o da chiarire – perché Di Pietro non l’ha chiarito, non ritiene di doverlo fare, benché personaggio pubblico – il suo possibile ruolo di capofamiglia negli acquisti di case e di terreni da parte dei figli e della moglie. Susanna Mazzoleni è un avvocato benestante, ma il figlio Cristiano è un consigliere provinciale che cominciò a comprare case quando aveva lo stipendio di poliziotto. E comunque fare conti nelle tasche altrui comporterebbe anche il conoscere il tenore di vita di un nucleo complessivo che comprende una coppia, tre figli e un’ex moglie. Pur generica, l’opinione di Di Pietro in merito è stata questa: «Alcuni giocano, altri speculano, altri evadono le tasse e altri ancora girano il mondo o se la godono e si divertono. Io ho preferito e preferisco fare la formichina come mi hanno insegnato i miei genitori». Tuttavia, secondo il il 740 dipietresco dal 1996 a oggi, ha guadagnato in tutto 1 milione di euro netti e ne ha dichiarati circa 200.000 l’anno. Al milione vanno aggiunti i circa 700.000 euro ottenuti dalle querele che ha sporto (e vinto) nonché 954.317.014 lire (praticamente un miliardo) incassati per una donazione della contessa Malvina Borletti una decina di anni fa: soldi che dovevano servire per attività politiche – espresso desiderio della contessa – ma che Di Pietro utilizzò per comprarci delle case. Comunque la si metta, alla luce del giro immobiliare di cui sopra, i conti faticano a tornare.
di Fabio Facci
L'ostracismo della Fiom mette a rischio gli investimenti Fiat in Italia
La sentenza “Pomigliano” mette a rischio gli investimenti di Fiat in Italia. La notizia è di ieri: il giudice di Torino ha deciso di ritenere accettabile la creazione della Newco, ma al contempo ha sentenziato che non è possibile escludere la Fiom dai nuovi contratti. Una sentenza che di fatto apre le porte ai ricorsi individuali da parte degli iscritti alla Fiom nel gruppo Fiat.
La risposta di Sergio Marchionne è stata immediata. L’amministratore delegato della casa automobilistica ha infatti deciso di congelare gli investimenti per la Nuova Panda che dovevano arrivare nello stabilimento di Pomigliano d’Arco. L’investimento di Fiat in Campania non è di poco conto dato che per fare rientrare la produzione della “piccola” torinese erano stati programmati 700 milioni di euro. A questo punto non è solo il progetto Pomigliano d’Arco ad essere a rischio, bensì l’intero piano “Fabbrica Italia” che prevede un investimento totale per raddoppiare la produzione italiana pari a 20 miliardi di euro. Questo decisionismo è tipico di Marchionne, che non aveva avuto dubbi al momento di spostare la produzione della monovolume Fiat da Mirafiori alla Serbia, quando il governo serbo aveva messo sul piatto centinaia di milioni di euro per fare arrivare la casa automobilistica italiana.
Lo stesso affare Chrysler si può dire abbia seguito la via del sussidio. Il governo americano ha deciso di salvare la casa di Detroit nazionalizzando, di fatto, il gruppo automobilistico. Fiat ha saputo cogliere l’attimo ed è entrata in Chrysler spendendo ben pochi soldi e con un trasferimento tecnologico. Un’ottima mossa per l’azienda torinese che, attualmente, si ritrova ad avere una Chrysler in recupero nel mercato americano. Nel primo semestre dell’anno vi è stato un sorpasso significativo. Chrysler ha venduto più auto negli Stati Uniti di quante ne abbia vendute nello stesso periodo Fiat in Europa. Questo cambio è epocale, perché fa ben comprendere che l’azienda, guidata da Sergio Marchionne, è ormai un player internazionale.
La riorganizzazione aziendale di Fiat, avvenuta ieri, va proprio in questa direzione. La creazione di quattro macro-aree evidenzia che la casa automobilistica torinese non è più un’azienda solamente italiana. Le debolezze del gruppo si trovano nei mercati in più rapido sviluppo, Cina e India in primis. In questi due mercati, che sono il futuro dell’auto, l’azienda torinese quasi non vanta alcuna presenza. Le joint-venture con i cinesi e con gli indiani non hanno dato finora i risultati sperati e questa è la fonte di maggiore di preoccupazione. Fiat rischia di essere il quinto o il sesto player sia nel mercato europeo che in quello americano, senza quasi alcuna presenza nei grandi mercati del futuro.
Una buona parte della politica e del mondo sindacale italiano ancora non hanno compreso che Fiat non è più solo un’azienda italiana. È necessario un cambio culturale, dove si favorisce l’arrivo d’investitori esteri in Italia. Non è possibile che l’intera produzione di veicoli in Italia sia legata solo a Fiat. Questo è dovuto ad una politica miope che nel tempo ha favorito un’incentivazione alla domanda tramite il “doping” dei sussidi alle vendite. Così facendo il nostro Paese ora produce meno auto della Repubblica Ceca e un terzo di quante ne produca la Gran Bretagna, che da anni non vede un produttore nazionale sul proprio suolo.
Per attirare gli investimenti è necessario anche un cambio delle relazioni sindacali. Una parte del sindacato lo ha compreso, mentre la Fiom no. Il preseguimento di questa battaglia da parte del sindacato della Cgil avrà la sola conseguenza che Fiat uscirà dalla produzione italiana. Non è infatti un segreto che l’Italia sia una fonte di perdita per la casa automobilistica. La riorganizzazione contrattuale, il famoso “contratto Pomigliano”, permetteva di legare maggiormente il salario alla produttività aziendale. Un fatto positivo che faceva avanzare l’Italia. La sentenza non esclude la possibilità di accettare questa maggiore contrattazione di secondo livello, ma l’ostracismo della Fiom può invece bloccare gli investimenti italiani di Fiat.
giovedì 21 luglio 2011
hahahahaha!!! non ci crderete !!! So chi è Spider Truman !!
ARTICOLO TRATTO DAL SITO INFORMAREXRESISTERE.FR
Negli ultimi giorni, ha fatto tanto scalpore la vicenda di Spider Truman e la sua pagina facebook che prometteva di svelare i segreti più incredibili di Montecitorio.
Quasi mezzo milione di persone è oggi iscritto a I segreti della casta per leggere tutto sommato ciò che ogni cittadino con un pò di buon senso sa, capisce o immagina !! Montecitorio(http://www.facebook.com/pages/I-segreti-della-casta-di-Montecitorio/232643153433351) ed il blog collegato (http://isegretidellacasta.blogspot.com/) è letto e commentato da altrettante persone che, in buona fede, credono di essere ad un punto di svolta nella storia moderna dell’Italia.
In realtà, si tratta di un ennesimo bluff architettato da chi è politicamente morto e cerca in qualche modo di uscire dal dimenticatoio perchè sì, la casta fa schifo, ma soldi e potere sono un po’ il sogno di tutti.
Passiamo ora a scoprire chi è il poveretto (e credetemi: mi sono cadute le braccia nello scoprire la sua identità).
Per prima cosa, ringrazio la pagina So chi è Spider Truman (http://www.facebook.com/pages/So-chi-%C3%A8-Spider-Truman/129856753769135?sk=wall) per i piccoli consigli di “ingegneria sociale” che ha fornito a tutti quelli interessati, come me, a scoprire chi è questo pseudo rivoluzionario.
Il procedimento per “smascherare” Spider è assai banale per chi ha una discreta dimestichezza con internet:
I. Accediamo al blog:
http://isegretidellacasta.blogspot.com/
II. Clicchiamo sul profilo di Spider Truman
http://www.blogger.com/profile/09581394345918430480
III. Passiamo il mouse su EMAIL. In basso a sinistra comparirà l’indirizzo di Spider:rotellinarotta@libero.it
IV. Se siete interessati, cercate l’indirizzo su Google. Non usciranno risultati interessanti, se non uno scambio di mail con un tizio della rete internazionale di hackers Anonymous.
V. Passiamo a Libero Mail
https://login.libero.it/?service_id=beta_email&ret_url=http%3A%2F%2Fmailbeta.libero.it%2Fcp%2FWindMailPS.jsp%3FrndPrx%3D1315477172
avviamo il procedimento per recuperare la password
VI. L’unica opzione disponibile è inviare una mail ad un indirizzo collegato (in parte oscurato):fro•••••••••••@libero.it
VII. A questo punto sfruttiamo un bug a dir poco clamoroso di Libero. Clicchiamo su Se hai problemi, visita la nostra sezione di assistenza.
VIII. Come per magia, la mail fino a pochi secondi fa oscurata diventerà completamente visibile:frontedelparco@libero.it
IX. Copiate l’indirizzo ed inseritelo nella ricerca di Facebook.
X. Scoprite chi è Spider Truman.
XI. Ridete fino allo svenimento.
PS: se siete interessati a degli screenshot, fate riferimento al sito
http://soloilmiopensiero.wordpress.com/2011/07/20/il-rivoluzionario-s-mascherato-ecco-chi-e-spider-truman/
(con cui non ho nulla a che fare)
PPS: semmai il demente in questione si accorgesse di essere stato scoperto in una maniera così ridicola e decidesse di cambiare mail o oscurare il suo profilo, vi dico subito che Spider Truman è
FRANCESCO CARUSO
http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Saverio_Caruso
Qui l'articolo originale:
http://informarexresistere.fr/2011/07/21/ho-scoperto-chi-e-spider-truman-e-la-cosa-non-vi-piacera/
da questa è la sinistra Italiana
Comunicato ufficio stampa On. Rainieri Fabio
SEQUESTRO ATTREZZI DA LAVORO CONTRAFFATTI: RAINIERI (LEGA): CHIUDERE I COLPEVOLI IN CELLA E BUTTARE LE CHIAVI
“Adesso stiamo davvero superando il limite. E’ evidente che qualcuno si crede al di sopra di qualsiasi norma e legge o che gli imprenditori del falso disposti a guadagnare mettendo a rischio la vita di chi compra i loro prodotti sono davvero senza scrupoli. Per queste persone pensavo di proporre i ‘lavori forzati’ ma comincio a ricredermi. Forse sarebbe solo meglio chiuderli in una cella e buttare la chiave”.
Così Fabio Rainieri, capogruppo della Lega Nord nella speciale commissione parlamentare contro la Contraffazione interviene a seguito del sequestro di circa 300 attrezzi da lavoro tra i quali martelli pneumatici, motoseghe, cassette utensili, e altre attrezzature, sprovviste della certificazione prevista dalla normativa Ue.
“Mentre in ogni modo il Governo e gli enti preposti fanno di tutto per difendere la vita delle persone, ecco che qualche imprenditore senza scrupoli cerca di immettere sul mercato attrezzi da lavoro privi delle regolari certificazioni europee. E chissà che cosa sarebbe accaduto se attrezzi come questi fossero stati venduti e utilizzati da ignari lavoratori in qualche cantiere. Per questo, se da una parte rinnovo i miei complimenti agli uomini delle forze dell’ordine e nello specifico ai finanzieri del Gico di Napoli e dello Scico di Roma, dall’altra non posso che augurarmi una modifica in tempi brevi della norma che preveda pene severissime per questi criminali che meritano davvero di restare a lungo a riflettere al fresco”.
GIOCATTOLI CONTRAFFATTI: RAINIERI (LEGA), BENE NUOVE NORME. NEL 2010, 950.000 SEQUESTRI
“Nel 2010 l’Agenzia delle Dogane ha sequestrato 950.643 giocattoli contraffatti”. Così Fabio Rainieri, parlamentare parmigiano della Lega Nord e capogruppo della lega nella speciale commissione di Montecitorio contro la Contraffazione interviene a seguito dell’attuazione del Decreto Legislativo 54 del 12 Maggio 2011 sulla sicurezza dei giocattoli.
“Nel periodo gennaio-marzo 2011 – spiega Rainieri - i sequestri di giocattoli sono stati pari a 249.830 pezzi, a cui vanno aggiunti quelli effettuati dalla Guardia di Finanza nel primo trimestre 2011, pari a 3.360.471 (pezzi) di cui 1.129.495 prodotti contraffatti. E proprio guardando a questi numeri non posso che esprimere la mia massima soddisfazione per l’attuazione del decreto. Una norma – continua – che di fatto si dimostra un alleato in più per il settore, poiché sancisce l’allargamento delle responsabilità nella filiera di immissione dei giocattoli sul mercato, fino ad assegnare al negoziante il compito di verificare la correttezza delle marcature, delle avvertenze e la presenza delle istruzioni in lingua italiana”.
“Nei giorni scorsi – riprende – avevo chiesto maggiore coordinamento tra il nostro Paese e l’Ue. Avevo sollevato la necessità di giungere in tempi brevi a normative condivise che ci permettessero di raggiungere un solo obiettivo: difendere i consumatori. Specialmente in questo caso quando i consumatori sono i nostri figli, ai quali abbiamo il dovere di garantire un futuro certo. Da oggi – conclude - ci auguriamo che, grazie anche a questo giro di vite, l’attenzione sul comparto sia ancora maggiore a difesa non solo dei produttori, ma anche e soprattutto, dei piccoli consumatori”.
mercoledì 20 luglio 2011
Arresto autorizzato a Papa (PdL), negato a Tedesco (Pd). Purtroppo non è Scherzi a Parte
Sembra incredibile, ma oggi, 20 luglio 2011, la "casta dei parlamentari", come è chiamata in questo periodo, l'ha fatta davvero grossa. Nello stesso giorno, la Camera ha autorizzato l'arresto di Alfonso Papa, deputato in quota PdL, il Senato l'ha negato ad Alberto Tedesco, del Pd, ex assessore alla sanità della giunta pugliese targata Vendola.
Mentre a Montecitorio la Lega manteneva la promessa di votare Sì per l'autorizzazione all'arresto di Papa, a Palazzo Madama il partito di Bersani, forte dello scrutinio segreto, ha fatto il furbetto: alcuni senatori del Pd, da identificare, hanno salvato Tedesco, che l'ha spuntata per soli 24 voti. I sì all'arresto, in base alle dichiarazioni di voto dei capigruppo, avrebbero dovuto essere 170 (Pd compreso), ossia la maggioranza dei senatori. Sono stati solo 127.
Questo nonostante i proclami e le promesse di "votare compatti per l'arresto" da parte degli esponenti del Partito Democratico. La moralità e la legalità tanto sbandierate dal Pd si sono oggi sbriciolate sotto gli occhi di tutti. Davvero una pessima figura, ammesso e non concesso che gli italiani ne tengano contro. C'è da sperarlo.
A sinistra avranno ancora il coraggio di parlare di questione morale dopo una giornata del genere?
martedì 19 luglio 2011
Perchè l'onestà è una ricchezza che non si vende e non si compera, ma si regala.
"Certe ferite non si rimarginano"
"Non è mai troppo il tempo che passa perché queste ferite possano rimarginarsi. Vedere che il mondo non dimentica ci spinge ad andare avanti". ha detto Lucia Borsellino, figlia del magistrato. "Il raggiungimento della verità sulla strage di via D'Amelio - ha aggiunto - farebbe bene all'umanità intera" .
"Non è mai troppo il tempo che passa perché queste ferite possano rimarginarsi. Vedere che il mondo non dimentica ci spinge ad andare avanti". ha detto Lucia Borsellino, figlia del magistrato. "Il raggiungimento della verità sulla strage di via D'Amelio - ha aggiunto - farebbe bene all'umanità intera" .
lunedì 18 luglio 2011
Rifiuti a Napoli: hanno cambiato tutto per non cambiare niente
Dopo decenni di gestione criminale che ha portano Napoli agli onori della cronaca mondiale per cui non si riusciva a distinguere se fosse più delinquente la camorra o la pubblica amministrazione, siamo arrivati alla svolta.
La svolta voluta dai napoletani che hanno designato un magistrato al governo della città. Un novello Mandrake che prima ha irretito con menzogne galattiche un esercito di creduloni (quanto ingenui non so dire) ed ora mette in pratica le soluzioni tecniche proprie di una sinistra ignorante, senza dignità e senza rispetto per i cittadini.
Un atteggiamento tipico di una parte della magistratura a cui ci siamo, obtorto collo, dovuti abituare.
E' di quest'oggi la notizia che per risolvere il problema rifiuti napoletani si è deciso che il metodo migliore
sarà quello di CARICARLI SU NAVE AL RITMO DI 5.000 TONNELLATE ALLA SETTIMANA e da Ottobre si dovrà operare con raccolta differenziata e compostaggio.
Mi sono già espresso su queste metodiche che considero fallimentari e dirette solo a sovvenzionare malaffare e nepotismo di maniera.
Ribadisco che Napoli ha bisogno di processare i rifiuti eliminandoli in loco e bonificando le discariche esistenti. Non tenendoseli in attesa di trasformarli in cosa ? In altri rifiuti ?
E la soluzione più semplice è anche quella più sicura mediante ricorso a tecnologie rapide e sicure proprio perchè si sta operando in un territorio fortemente antropizzato.
LA SOLUZIONE:
Ripropongo brevemente il progetto presentato già nel 2004 e reiterato nel 2006 e nel 2008 (con l'interessamento del Rotary ) ai vari Bassolini, Jervolini etc. etc. etc. premettendo che la tecnologia a plasma termico tratta tutte le tipologie di rifiuto organico.
1) Raccolta di tutti i tipi di rifiuto organico (quindi tolto vetro e metallo)
2) Macinatura
3) Gassificazione
4) Riciclo delle ceneri vetrificate (come materiale di riempimento per massicciate stradali)
L'impianto di processo è MODULARE quindi, all'occorrenza, si possono aggiungere unità a seconda delle fluttuazioni quantitative.
Le unità possono essere specializzate nel trattare diverse tipologie : solo ospedalieri, solo tossici etc.
Anche se ciò, ripeto, in un plasma termico non è necessario. E' solo una questione di gestione delle linee di processo. Il risultato è sempre lo stesso: gas e inerti.
Il trattamento a plasma ha un rapporto di riduzione dei rifiuti che può arrivare sino a 300: 1.
Ciò significa che per ogni tonnellata di rifiuti si possono ottenere AL MASSIMO 300 kg di inerti.
QUINDI IL RICORSO ALLA DISCARICA NON ESISTE PIU'.
Il trattamento a plasma è silenzioso e non rilascia odori fastidiosi in quanto il complesso lavora a pressione negativa (cioè inferiore alla pressione atmosferica) ed è molto compatto per cui può essere posizionato nell'immediata periferia della città.
Il trattamento a plasma non rilascia diossine, furani o VOC's.
Un impianto a plasma costa il 40% in meno rispetto a un inceneritore. Quindi se Napoli avesse a suo tempo scelto questa tecnologia anzichè quella installata ad Acerra si ritroverebbe oggi con:
A) 4 reattori a plasma binati per un totale di 8 linee di processo distribuiti sul territorio con una
capacità di 800.000 ton/ anno
B) Nessun problema di discariche esaurite e, quindi, nessuna tensione sociale.
C) Nessun problema di inquinamento in biosfera.
La prima obiezione che si fa a questa tecnologia è: " Ma se funziona così bene perchè non ha una diffusione maggiore ?"
Molto semplice: in altre nazioni non esistono le problematiche generatesi a Napoli.
In Giappone ad esempio si sono già realizzati (Hitachi Metals Corp.) e gli inceneritori verranno sostituiti a fine vita con reattori a plasma.
Negli USA non si hanno problemi di stoccaggio o di inquinamento (non gli interessa !) ma la Municipalità di New York ha deciso di dotarsi di un impianto a 24 reattori con cui bonificherà anche i fanghi del porto.
Negli USA la tecnologia a plasma è diffusissima su portaerei, sottomarini nucleari e sulle navi appoggio della Marina.La NASA utilizzò il plasma termico per testare i materiali con cui ricoprire gli Shuttle.
La Francia, a Morcenx, usa il plasma per inertizzare l'amianto ed a breve inizierà anche a trattare i rifiuti urbani.
In Bulgaria il plasma verrà usato per vetrificare e stabilizzare scorie nucleari.
Ma questi sono discorsi che ho già fatto in varie sedi (e non solo io !) mi hanno sfibrato e demotivato.
Se manca la volontà politica di fare una scelta le parole non servono a nulla.
Dopo anni di battaglie inutili posso tranquillamente ritenere di avere la coscienza a posto.
Chi vuole vivere nella melma ed essere amministrato da incompetenti (o peggio !) faccia pure.
Tifo, colera e tumori permettendo.
Nota: A suo tempo furono consegnati gli elaborati tecnici contenenti i tracciati in spettroscopia di massa, in cromatografia e all'infrarosso degli inquinanti residui. Tutti sotto i limiti ammessi dall'EPA (molto più restrittivi delle norme CEE).Con in più la bibliografia sui principi di funzionamento (la maggior parte prodotta dal CNR).Non mi risulta che ne abbiano letto una sola pagina.Però Napoli e le sue amministrazioni continuano mendicare denaro e interventi che pesano su noi tutti senza minimamente pensare a risolvere seriamente questa piaga ultradecennale (ricordate il colera del 1972 ?).
Di: Marcello Sanna
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