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sabato 17 settembre 2011

Bersani vuole l'ammucchiata (ma scorda che Penati è del Pd )

Siccome "Berlusconi deve togliersi di lì oppure ci porterà a fondo" - parola di Pier Luigi Bersani - il Pd lavora per un centrosinistra di governo e per un "nuovo Ulivo" discutendo con Sel, Idv, socialisti e ambientalisti: l'ennesima riedizione dell'ammucchiata. Il segretario democratico, dopo essere stato introdotto da Carla Fracci, svela la sua strategia politica, una coalzione "di un patto ben solido tra soggetti che si rispettino". Una sponda a Bersani arriva da Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc, che dalla festa del suo partito rilancia: "Le Marche sono state solo un incidente o una strada da perseguire? Il Pd lo dica, perché se è quella la strada da seguire siamo interessati. Se no ci siamo sbagliati un po' tutti".

"Appello ai moderati" - Il piano svelato da Bersani a Pesaro è accompagnato dal rituale appello "a tutte le forze moderate che non si ritengono di centrosinistra ma che intendo fare i conti con il modello plebiscitario e lavorare per una ricostruzione del Paese su solide basi costituzionali". Pier, insomma, continua a strizzare l'occhio ai centrsiti, senza però farne i nomi. "Chi è motivato in questo senso - ha proseguito - può discutere con noi, in modo aperto, che sia soggetto politico o si tratti di movimenti, di organizzazioni, di personalità che vogliano sinceramente muoversi per reagire alla deriva di questi anni. A tutti loro - ha proseguito alla chiusura della festa nazionale del Partito Democratico - diciamo con chiarezza: chi vuole veramente voltare pagina da Berlusconi e dalla Lega e aprire un cantiere di riforme non può pensare di prescindere dal partito democratico. Sarebbe un'illusione". Convinto lui...

"Governo di transizione" - Così bersani chiede "un governo di transizione che faccia una nuova legge elettorale". Quindi una nuova serie di accuse all'esecutivo. "Pensiamo amaramente dove è finito il nostro antico destino di anticipatori - afferma -. Con Berlusconi abbiamo anticipato: riti domestici e piccole patrie, modelli personalistici sconosciuti alle democrazie del mondo, una comunicazione ossessiva e demagogica". Quale il risultato, a suo parere? "Siamo lo strapuntino dell'Europa e del Mondo. Il mondo guarda a noi come a una zavorra".

Tangentopoli rossa - Nel corso del suo intervento Bersani non può però glissare sulle beghe interne, il caso Penati e il sistema Sesto. "Chi fa circolare contro di noi teoremi assurdi o leggende metropolitane - il segretario prova a difendere la sua creatura -, chi aggredisce con calunnie l’unico partito nazionale che fin dalla sua nascita ha un bilancio certificato, si prende una denuncia e una richiesta di danni. Non passerà il tentativo di metterci tutti nel mucchio". Bersani promette così di portare in tribunale chi accosta gli episodi che riguardano Filippo Penati al Partito Democratico, scordandosi però che l'ex presidente delle Provincia era il suo braccio destro. "La critica l'accettiamo - ha aggiunto - l'aggressione no".



fonte "liberonew"

INDAGATO L'EDITORE DE L'UNITA' PER EVASIONE FISCALE


La grande caccia all'evasore si conclude 

nell'ufficio del suo 

editore Renato Soru.

settembre 2011
SE L'UNITA' LANCIA UNA CAMPAGNA CONTRO GLI EVASORI E POI IL SUO EDITORE
VIENE INDAGATO PER EVASIONE FISCALE, E' NEMESI?

Il quotidiano di sinistra L'Unità nei mesi scorsi ha lanciato una lotta appassionata contro gli evasori fiscali.
Alcuni titoli: "Indecenti evasioni", "grandi imbroglioni", "pene più severe per gli evasori",  "Regali ai grandi
evasori", "il problema di chi non paga le tasse è un problema politico", "la lotta all'evasione è uno dei punti
 fondamentali dell'anti-manovra del PD".
Se la Guardia di Finanza indaga Renato Soru, editore e azionista de L'Unità, nonché esponente del PD, per
 aver scordato di pagare le imposte di una sua società inglese, si può parlare di NEMESI?
E se uno dei "grandi imbroglioni" fosse proprio l'editore, con che titolo uscirà L'Unità?

lunedì 12 settembre 2011

Il finto martire Santoro esce milionario dalla Rai. Ma chiede una colletta per tornare in televisione.


Alla festa del Fatto Quotidiano l’ex conduttore di Annozero chiede dieci euro per finanziare il suo nuovo programma Comizi d’amore, che andrà in onda sulle reti private e sulla web tv del giornale di Travaglio, nonostante una liquidazione milionaria.

Dunque, in soldoni, secondo Michele Santoro il mondo va così: la guerra in Irak è stata fatta per coprire l’avvento della grande crisi economica mondiale, lui è stato cacciato dalla Rai perché avrebbe rivelato questa verità, l’Italia è governata da un uomo che è solo una barzelletta, l’opposizione non esiste, l’informazione si è addormentata ed è schiava del conflitto d’interessi, pure La7 deve ubbidire al governo. E dunque? Lui, che solo e unico è in grado interpretare il pensiero degli italiani che a tutte queste cose vogliono opporsi, cosa deve fare? Raccogliere dieci euro a testa tra il popolo che lo ha incaricato della missione impossibile: fare informazione vera. E con la colletta costruire un nuovo network, libero, senza padroni, senza intromissioni, che possa mandare in onda il suo talk in totale autonomia.
Proprio così: è questa la «grande» proposta che il giornalista ha lanciato ieri pomeriggio dal palco della Festa del Fatto quotidiano, il giornale che lo appoggia e che gli ha fatto trovare una platea gremita di fan per la prima apparizione pubblica dopo le dimissioni dalla tv di Stato del giugno scorso. Insomma, un programma costa moltissimo e Santoro, non avendo più a disposizioni i potenti mezzi della Rai (da cui è uscito con una liquidazione di 2,5 milioni di euro) e avendo rifiutato sdegnosamente quelli della Telecom, ora batte cassa tra la gente che si riconosce nelle sue idee. Come farà a raccoglierli? Come fece nelle prove generali della serata bolognese di Tutti in piedi organizzata con l’aiuto della Fiom: grazie a giovani volontari. Ai soldi raccolti con la colletta si aggiungeranno quelli di imprenditori privati televisivi. Perché l’anchorman vuole costituire una società dal titolo che è tutto un programma, «Servizio pubblico»: primo socio Sandro Parenzo, il patron di Telelombardia; secondo il Fatto quotidiano (la scelta è questa, anche se il Cda non ha ancora deliberato ufficialmente il finanziamento).
Il programma che Santoro chiamerà Comizi d’amore (il richiamo è a Pasolini) verrà trasmesso, oltre che da un collage di tv locali di tutt’Italia e attraverso il web, anche da un canale Sky, messo a disposizione al giovedì sera. E questa è la vera sorpresa della serata, la chiave di volta che (se confermata dagli interessati) garantirà successo al telepredicatore dato che la rete satellitare garantirà una copertura nazionale al talk, oltre a regalare grandissimi ascolti al network di Murdoch. A questo punto bisognerà vedere se il magnate australiano, considerato lo squalo mondiale dei media, colui che si è inguaiato con lo scandalo di News of the world, garantirà a Santoro quella libertà assoluta che nessuno in Italia ha osato concedergli. O Berlusconi, o chi per esso, si metterà a telefonare pure a Murdoch?
Perché secondo Santoro, in Italia, anzi nel mondo, l’informazione, dopo l’11 settembre si è assopita, è deragliata verso il sentimentalismo, l’emozione data dal «sacrificio dei vigili del fuoco morti sotto le Torri gemelle». Lui, che invece avrebbe svelato le vere ragioni della guerra in Irak («I servizi segreti americani non tennero conto dei segnali chiari che l’attentato stava arrivando») e cioè che serviva per distogliere l’attenzione dall’incipiente crisi economica, è stato ostracizzato dall’editto bulgaro emesso da Berlusconi. E quando è tornato, grazie alla sentenza della magistratura, in Rai ha dovuto «passare più tempo con gli avvocati a difendersi dai tentativi dei vertici, messi lì dal premier e da lui telecomandati, di controllarlo che a realizzare il suo programma». E tenendo conto che «Bersani è un fantasma che non lo ha difeso», che pure Mentana e Lerner sono «bravi professionisti ma fanno quello che possono», e che La7 è governata da uno (Giovanni Stella) che «parla di macachi e banani e che invece di ascoltare il mercato (l’annuncio dello sbarco di Annozero provocò un più venti per cento delle azioni Telecom in Borsa) mi vuole controllare la scaletta», detto tutto questo ci vuole qualcuno che si faccia portavoce di chi vuole dire «Basta!» a un premier troppo impegnato nei bunga bunga.
Anzi, bisogna «andare oltre: riprendersi la Rai, il servizio pubblico e l’informazione libera. Per cui i primi ospiti della nuova trasmissioni dovranno essere «Sabina Guzzanti, Luttazzi e Celentano, da cui andrò in ginocchio per pregarli di partecipare». Perché conclude Santoro nell’ovazione generale «come dice Obama non dobbiamo dimenticare da dove veniamo se vogliamo sapere dove andremo». Dove andrà lui ora si sa: nelle fauci di Murdoch con la colletta del popolo di sinistra.
(IlGiornale.it)
fonte blog: QUESTO-PUNTO-ESCLAMATIVO-AVRA-PIU-FAN-DI-MICHELE-SANTORO

domenica 11 settembre 2011

BOCCA ... CHIUSA. L'ex duro e puro adesso ha paura a scrivere di Bersani

«Un tempo mi sarei lanciato nella discussione: stavolta non l’ho fatto anche con un senso di paura». 
Così dichiara al Fatto Quotidiano in riferimento alla faccenda Penati. Proprio lui che del suo ardimento fisico da partigiano, combattente impavido nelle formazioni di Giustizia e Libertà, e di quello verbale da scrittore e giornalista, attaccante senza paura dei potenti di turno, ha sempre fatto motivo di orgoglio.
Ma ora è successo l'imprevedibile: il duro e puro si è cacato nei pantaloni.
Le minacce di querele e di risarcimenti milionari (e magari d'altro non noto) pronunciate da Bersani all'alba della vicenda Penati hanno fatto vacillare le granitiche convinzioni sul diritto di cronaca di Giorgio Bocca.
Ma qualche cosa comunque gli è sfuggito:  «... vedo un’assoluta identità (fra il Pd e i tempi d’oro del Psi pigliatutto). Craxi diceva: i mariuoli ci sono ma i soldi servono ai partiti. L’unica cosa che si capisce da questa vicenda è che la sinistra è la stessa cosa della destra, quanto a onestà ». «Rubano tutti. Tutti i politici hanno lo stesso interesse: avere il potere e fare soldi. La via è comune».
E poi, conferma: «... mi sono ben guardato dallo scrivere articoli sull’argomento. Le querele volano e i giornali nemmeno ti sostengono. Un tempo mi sarei lanciato nella discussione, stavolta non l’ho fatto anche con un senso di paura».

Con Berlusconi non ha avuto paura. Ma  si sa, in fin dei conti Silvio è un bonaccione. I cattivi veri sono tra i suoi compagni che conosce bene. Lui c'era nel dopoguerra al tempo delle rappresaglie sanguinarie; sa che il lupo perde il pelo ma non il vizio. E lui vuole vivere i suoi ultimi giorni in pace.


Fonte blog di Flavio Berlanda

Che figuraccia: la Cgil falsifica ovunque i dati sulla partecipazione allo sciopero

Povera Cgil, com’è caduta in basso. Per smentire il fallimento dello sciopero del 6 settembre, la cui partecipazione è stata assai inferiore alle attese soprattutto da parte della pubblica amministrazione (solo il 6.9% dei dipendenti pubblici avrebbe incrociato le braccia, secondo i dati rilevati alle ore 17 del 6 settembre, gli ultimi disponibili. Il 6 maggio l’adesione era stata esattamente il doppio), il sindacato ha pensato bene di rifilare dati fasulli. Una mossa non proprio felice, anche perché le bugie hanno le gambe corte.
E così, se il comunicato diffuso all’Ansa che annunciava uno straripante “70% di mezzi pubblici rimasti in deposito a Torino, Roma, Napoli” è stato contraddetto piuttosto agevolmente dall’evidenza dei fatti (mezzi pubblici che, soprattutto a Torino, circolavano piuttosto regolarmente e fonti interne alla Gtt, Gruppo Torinese Trasporti, parlavano di un massimo 30% di bus e tram rimasti in deposito), figuraccia peggiore è stata fatta a Firenze, dove il sindacato rosso ha perso la faccia. Il sindaco, Matteo Renzi, ha rivelato i dati relativi alla partecipazione allo sciopero da parte dei dipendenti pubblici del Comune: un eloquente 14%, percentuale piuttosto bassa, sintomatica di un’adesione pressoché insignificante. Niente da fare, la rappresentanza comunale della Cgil ha battuto i piedini per terra, non c’è proprio voluta stare: “Renzi è un bugiardo”, “Renzi è un sindaco che non ama i propri dipendenti”, “La stampa di regime, dando credito a Renzi, vuole demolire la grande mobilitazione messa in campo dalla Cgil in tutta Italia”. Come no, però di dati che potessero smentire quelli diffusi dal sindaco, nemmeno l’ombra.
Tralasciando le “rosse” Torino e Firenze, e trasferendoci nella “rossa” Emilia Romagna, ecco la vera barzelletta. Succede a Imola. Nella cittadina romagnola, la segretaria locale della Cgil, tal Mirella Collina, pensa bene di diffondere dati roboanti: “In Comune a Imola, tra le persone che erano in servizio e potevano scioperare, l’adesione è stata del 91%, quindi oltre la nostra rappresentanza”.
Così parlo la simpatica sindacalista. Succede però che il giorno dopo arrivano i dati ufficiali, diffusi dal Comune: in tutto hanno scioperato 211 dipendenti e 2 dirigenti su 604 in organico. Se la matematica non è un’opinione, un po’ meno del 91%. Esattamente il 35,3%.
Le cifre vere sono state diffuse dai colleghi sindacalisti Alessandro Lugli (Cisl) e Giuseppe Rago (Uil) e finite su giornali come “Il Resto del Carlino” e “La Voce di Romagna”. Eloquenti i titoli: “I dati del Comune sbugiardano la Cgil”.
Proprio il caso di dirlo: Che figuraccia! Complimenti!



fonte blog: questa è la sinistra italiana
http://networkedblogs.com/mRsc1

Casson svela le vergogne del Pd. "tanti altri casi di tangenti e corruzione"

Il Senatore democratico ed ex magistrato "Penati non è l'unico, abbiamo seri problemi di etica pubblica"


«Il caso di Penati non è isolato. Purtroppo vicende simili, di corruzione nella pubblica amministrazione, sono successe anche in altre regioni. È evidente che c’è un problema di etica pubblica. Di fronte a questo, il Partito democratico dovrebbe riflettere e agire prima e di più». Felice Casson, ex magistrato, ora senatore del Partito democratico, non ha la voce del fustigatore. Eppure, dietro alla morbida cantilena veneziana, non risparmia scudisciate al suo partito. 
Il gip ha negato l’arresto a Filippo Penati per prescrizione dei reati. Ma lui, se volesse, potrebbe rinunciare, alla prescrizione? 

«Sì. In questi casi il giudice, a meno che non risulti la chiara estraneità ai fatti, deve dichiarare estinto il reato. Ma l’imputato, in ogni fase del procedimento, può sempre dire: “No, preferisco che si arrivi fino in fondo, che venga accertata la verità perché ritengo di essere innocente”».
Secondo lei Penati dovrebbe farlo?
«È una valutazione processuale e personale che spetta a lui e ai suoi avvocati».
C’è, però, anche un aspetto politico in tutta questa vicenda. Lei cosa ne pensa? 
«Esiste un problema di etica pubblica, di corruzione diffusa. Ed è un discorso che riguarda sia la complessità della pubblica amministrazione, sia il Partito democratico. Vicende simili, purtroppo, si sono svolte anche in altre regioni. Penati non è il solo».
Bersani sostiene che si tratti di singoli casi. Non è così?
«Io credo che il tema dell’etica pubblica vada affrontato in maniera decisa e netta anche dal Partito democratico. La responsabilità penale, ovviamente, va accertata dalla magistratura. Ma gli aspetti politici sono per certi versi ancora più delicati, perché da un politico bisogna pretendere una trasparenza ampia e convincente. E il Pd, su questo, dovrebbe agire di più».
In che senso? 
«Bisognerebbe lavorare di più sulla prevenzione. Il rispetto delle regole deve essere richiesto prima che si verifichino episodi di questo tipo».
Come?
«Per esempio con una maggiore trasparenza in tutti gli incarichi di pubblica amministrazione. Abbiamo centinaia, migliaia di amministratori eletti. La grandissima parte sicuramente sono bravissime persone. Ma possono verificarsi casi di questo tipo. Quando sono più di uno, come sta accadendo, bisogna che l’organizzazione politica rifletta e capisca come intervenire. Bisogna far crescere dal punto di vista etico chi aderisce al partito e avere la capacità di intervenire subito, chiedendo un passo indietro appena si verificano casi delicati».
La reazione del Pd, finora, non è stata di questo tipo? 
«Bersani non è stato in silenzio. Ha detto che la magistratura doveva agire il più fretta possibile. Ed è positivo che Penati si sia dimesso da tutti gli incarichi nel partito e da vicepresidente del Consiglio regionale. Finché non si arriverà a sentenza definitiva, non credo si possano prendere altri provvedimenti. Anche se ritengo che a un politico si possa e si debba chiedere un passo indietro fino a quando non si fa chiarezza».
Ieri Penati si è autosospeso dal partito. Ma è ancora consigliere regionale. Dovrebbe dimettersi anche da questo incarico? 
«Bisogna aspettare la conclusione della vicenda. Può darsi anche che si aggravi la situazione, visto che c’è il ricorso del pm contro la decisione del gip. Ricordo che nel caso di Alberto Tedesco il gip aveva rigettato una parte della richiesta di arresto, ma poi il Tribunale del Riesame ha dato ragione ai pubblici ministeri».
E nel caso di una sentenza di condanna?
«Se la pena è superiore ai cinque anni, scatta l’interdizione dai pubblici uffici. Se è inferiore, può esserci l’interdizione temporanea».
Ma se c’è la prescrizione è salvo...
«Certo. Ma di fronte a una sentenza di prescrizione in cui i fatti vengono accertati e dichiarati, bisogna che tutti quanti ne prendano atto».

di Elisa Calessi

Sempre più Pd nel caso Penati, ora spunta anche una pistola.

Più gli inquirenti scavano nel 'caso Penati', più si ha la conferma che quello gestito dall'ex braccio destro di Pierluigi Bersani non si possa semplificare nel 'Sistema Sesto' ma sia un fatto strutturale. La presunte tangenti rosse per le aree ex Falck e Marelli, unite alle ipotesi di corruzione per l'autostrada Milano-Serravalle, in realtà appartengono a un sistema ben più esteso e intricato. Così, i vertici di via Nazareno sono sempre più in difficoltà e il tentativo di chiamarsi fuori rispetto ad un caso che definiscono isolato, non regge affatto. Il Pd inizia a tremare, quasi non riuscisse più a controllare la situazione. L'ultimo tassello che emerge è inquietante: una minaccia a mano armata.

Minaccia a mano armata - L'imprenditore Piero di Caterina nonchè il grande accusatore di Filippo Penati nell'inchiesta della Procura di Monza, avrebbe puntato una pistola all'ex assessore all'Edilizia di Sesto San Giovanni, Pasqualino Di Leva. A quanto si apprende, il fatto è stato riferito dal legale di Di Leva l'avvocato Giuseppe Vella, nell'udienza davanti al Tribunale del riesame di Milano. Lo stesso tribunale che dovrà decidere sulla richiesta di scarcerazione presentata dalla difesa dell'ex assessore, finito in cella proprio nell'ambito del presunto giro di tangenti per le aree ex Falck e Marelli.

Di Caterina: "Tutto falso"- Di Caterina smentisce in modo categorico ogni accusa: "Io non ho mai minacciato nessuno con la pistola, non è mai successo. Ho un regolare porto d'armi da 30 anni - ha aggiunto il proprietario della Caronte - e ce l'ho per motivi professionali. Queste minacce stanno venendo fuori dopo che Magni ha detto sul giornale si sentirsi intimorito". Non solo, l'imprenditore nel difendersi passa al contrattacco e sostiene che l'accusa sia in realtà una "scentata napoletana" studiata ad arte da chi "si deve mettere al riparo da accuse molto pesanti". "Del resto - conclude Di Caterina - e una persona viene minacciata con la pistola va a denunciare il fatto alla polizia".

Le prove della difesa - Eppure la difesa di Di Leva, sostiene la propria linea sulla base di "prove documentali". Oltretutto, secondo il legale, l'episodio della minaccia a mano armata sarebbe anche il motivo dell'avvenuta rottura delle relazioni tra Di Caterina e Di Leva. Cosa che di fatto si è verificata. In sede d'udienza Vella ha anche chiarito la posizione del proprio assistito: "La nostra linea difensiva è fondata su prove documentali, Di Leva non ha mai preso tangenti da chicchessia e confidiamo nella serietà di questo tribunale". La difesa ha chiesto, dunque, che Di Leva venga rimesso in libertà o in subordine agli arresti domiciliari.



fonte: Libero blog

Tangenti rosse, per il Pd tangenti anche in Liguria.

Basta Ipocrisia e omertà, il Pd c'è dentro fino al collo. Le tangenti si estendono alla Liguria. Il Pd è il partito  dei fondi neri ai danni della parte sana e produttiva del paese. E Bersani chiede le elezioni !
Ammesso che abbia mai retto, la linea difensiva del Penati, lupo solitario in un partito che non vedeva e non sapeva (e che, avesse saputo, onesto com’è avrebbe fatto un quarantotto) sta pochissimo in piedi. Mano a mano che emergono i dettagli delle inchieste sull’ex braccio destro di Pier Luigi Bersani, si delinea un quadro che - ovviamente se confermato dai magistrati - rende difficile sostenerla.
Intanto perché, specie per quanto riguarda l’indagine sulla Serravalle, la faccenda sta travalicando gli angusti confini di Sesto San Giovanni. E sta iniziando ad accostarsi a nomi in forza ai Democratici anche in Piemonte e Liguria, rispettivamente l’ex segretario del Pci torinese e oggi presidente dello Iacp del capoluogo piemontese Giorgio Ardito (cui Binasco avrebbe fatto pervenire un pagamento: Ardito, non indagato, smentisce) e l’attuale sindaco di Genova Marta Vincenzi (che da presidente della Provincia di Genova vendette le quote dell’autostrada al gruppo Gavio). Senza contare Angelo Rovati. L’ex braccio destro di Romano Prodi è stato intercettato al telefono con Binasco a discutere di una caparra con scadenza al 31 dicembre 2010. Che per i pm è la doppia caparra Binasco-Di Caterina al centro dell’inchiesta (i giudici vogliono capire se fosse una forma di pagamento occulto per Penati) e che per Rovati è invece la caparra di una casa da lui stesso venduta al gruppo Gavio e in scadenza, curiosamente, lo stesso giorno di quella sotto la lente dei pm.
Si obietterà che sempre di singoli si tratta e che di qui al sistema ce ne passa. Non fosse che ieri - e al momento di andare in stampa non si registravano smentite - un peso massimo degli ex Ds, l’ormai vendoliano Fabio Mussi, abbia avanzato il più terribile dei sospetti: che quei soldi siano serviti ad influenzare il congresso della Quercia nel 2001, quando i dalemiani sconfissero il Correntone e fecero incoronare Piero Fassino segretario. «Se per caso», dice l’ex ministro, «viene fuori che in quel congresso sono girati dei soldi per condizionarne l’esito, giuro che gli faccio una class action».

fonte: di Marco Gorro