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mercoledì 7 settembre 2011

Ecco chi è Il compagno Don Giorgio.


Il Compagno “don” Giorgio de Capitani - Segnalazione di Luciano Gallina - Probabilmente in crisi di visibilità, a causa della grande esposizione pubblica delle realtà cattoliche fedeli alla Tradizione, i rigurgiti di progressismo catto-comunista vengono stanati e mettono in scena i peggiori deliri. Senza considerare che la gente sa confrontare e…giudicare…anche il fatto che la gerarchia conciliare tace…(n.d.r.) - “DON” GIORGIO: SIGNORE FAI VENIRE L’ICTUS A BERLUSCONI” - Il caso del parroco lecchese De Capitani: odia Cav, aborto e eutanasia (ma non rinuncia allo stipendio) - Exit è un programma de La7, con una conduttrice che strilla più di Gad Lerner e addirittura gareggia con lui in faziosità. Mercoledì sera dunque Exit – fra migliaia e migliaia di sacerdoti che ci sono in Italia, che danno una grande testimonianza di carità, che per Cristo sudano da mattina a sera – ha scovato un prete che parla, parla, parla. Anzi straparla. E ovviamente la tv ha ...
... dato il palcoscenico a lui e alle sue chiacchiere (come vedremo chiacchiere che attizzano l’odio), non a tutti gli altri preti che insegnano la carità e la misericordia. Questo don Giorgio De Capitani, parroco di Monte di Rovagnate, è – a dire il vero – un prete sconosciuto (e dai teoremi confusi), ma smanioso di mettersi in mostra (chissà se lo vedremo all’Isola dei famosi). Forse è per far parlare di sé che ha pensato di spararle così grosse.
“FALSI CATTOLICI” – Prima – in segno di umiltà – si è impancato a giudice di tutti i cattolici definendoli «falsi cattolici» in quanto «sono legati alla struttura della Chiesa». Ovviamente «vescovi e gerarchia» per primi sarebbero «falsi cattolici».
L’intervistatore non gli ha chiesto perché lui continua a fare il parroco di quella Chiesa e perché da quella Chiesa e da quei «falsi cattolici» prende la congrua mensile. E lui non ha annunciato che rinuncia all’abito e al suo lavoro. No. Ha emesso la sua sprezzante sentenza di condanna generale (che esempio di carità e di umiltà), ma in quella Chiesa di «falsi cattolici» rimane comodamente. Immemore dell’ammonimento di Gesù «non giudicate e non sarete giudicati», ha poi trinciato giudizi così: «Oggi se dovessi dire se il cristianesimo esiste nella Chiesa Cattolica per me non esiste». Don Giorgio, che deve ritenersi l’unico vero cattolico (o forse neanche cattolico perché se la prende pure col «cattolicesimo») è passato poi ad attaccare lo «stato vaticano». Ma soprattutto ha imputato alla Chiesa di non aver fermato Berlusconi che egli sembra considerare una sorta di Anticristo.
Infatti, dopo due battute misogine e offensive sulle donne ministro (con qualche volgarità), è andato a cercare il botto con queste parole finali: «Io ho scritto un articolo nell’88 intitolato “Cristo liberaci da Berlusconi”». Secondo questo parroco con Berlusconi in Italia non si vive più: «E allora come facciamo? Non lo so. Forse io sono prete, prego il Padreterno che gli mandi un bell’ictus e rimanga lì secco».
AUTOCELEBRAZIONI – Lì secchi sono rimasti in realtà i telespettatori. Il parroco invece tutto compiaciuto, nel suo sito autocelebrativo, invita trionfalmente a guardare la puntata di Exit con la sua performance. A occhio e croce – dando un’occhiata al suo sito, dove è messo in mostra il ritratto di Marx e un articolo sul “manifesto del partito comunista” – questo prete dai capelli bianchi sembra un sopravvissuto degli anni Settanta, quell’angoscioso periodo in cui nelle sacrestie tirava il vento delle ideologie. (…) Ascoltando la surreale intervista di questo parroco forse qualcuno dirà: «Signore perdonalo, perché non sa quello che dice». Ma il fatto che un prete in televisione arrivi a evocare il male di qualcuno ha ferito e scandalizzato molti.
Non è questione di Berlusconi o non Berlusconi. Ovviamente varrebbe la stessa cosa anche se avesse parlato di Bersani o Di Pietro o Vendola.  È questo un tempo in cui l’odio e il disprezzo tracimano da ogni parte. Almeno agli uomini di Chiesa chiediamo che continuino a insegnare la carità e la misericordia. Come fanno.
Con qualche triste e penosa eccezione che conferma la regola. (Il guaio è che la maggior parte degli uomini della Chiesa ufficiale sono uomini della “Contro-Chiesa” modernista conciliare. C’è chi ne è consapevole e chi no. De Capitani è certo un’espressione tra le più gravi, ma molti altri, magari meno esposti, siamo sicuri che la pensino molto meglio? “Don” Gallo, “don” Vitaliano sono, ad esempio, tutti al loro posto a far danni…nel silenzio della gerarchia conciliare, che quando diventa assordante diventa pure implicita complicità.
di Antonio Socci

Lo sciopero della Cgil è un flop. In piazza solo pensionati e noglobal.


Il sindacato della Camusso mollato dallo zoccolo duro: al 23,5% l’adesione dei metalmeccanici e al 6,9% nella pubblica amministrazione. Scontri a Milano, Torino e Napoli. Dai centri sociali fumogeni e uova contro le banche. Bertinotti fischiato a Bari.

Roma – La Cgil la spara grossa: in mattinata fissa l’adesione allo sciopero, su tutto il territorio nazionale e in tutti i settori, al 58 per cento. Poi, a mezzogiorno, il sindacato guidato da Susanna Camusso già che c’è arrotonda al 60 per cento. Ma la verità è che a incrociare le braccia ieri è stata una minoranza degli italiani. E in piazza c’erano soprattutto gli anziani – che la Cgil ha l’abitudine di mobilitare con il pacchetto pullman più pranzo al sacco – e i no global, che si sono resi protagonisti di qualche incidente, a Milano, Torino e soprattutto a Napoli, dove otto poliziotti sono rimasti feriti dall’esplosione di cinque petardi nel corso della manifestazione indetta dal sindacato autonomo Usb e dallo Slai Cobas, nei pressi della sede della Banca d’Italia (una persona è stata condotta alla questura in via Medina). A Milano lanci di uova e di fumogeni contro diverse banche a opera degli antagonisti del centro sociale Cantiere e nel capoluogo piemontese lanci di uova contro la sede della Banca d’Italia e della Fondazione Crt e tafferugli in piazza San Carlo tra No Tav, autonomi dei centri sociali e polizia. A Bari, contestazione inattesa: una rappresentanza di Alternativa Comunista ha fischiato Fausto Bertinotti.
Incidenti che hanno animato una giornata che passerà alla storia come un mezzo flop per la Cgil, tradita dai settori che dovrebbero costituire il suo zoccolo duro. Ad esempio i metalmeccanici: l’adesione allo sciopero di questo settore, secondo Federmeccanica, ha toccato il 23,5 per cento, dato deludente. Che «sgonfia» le percentuali bulgare sbandierate dalla Cgil nei vari stabilimenti: 80 per cento a Mirafiori, 80 per cento alla ThyssenKrupp di Terni, 80 per cento alla Fincantieri di Monfalcone e di Palermo, 70 per cento alla Marcegaglia di Mantova, 75 per cento alla Michelin di Cuneo, 65 per cento alla Indesit di Fabriano, addirittura il 100 per cento alla Nestlè e alla Barilla Pedrignano nel Parmense. Quando però la fonte non è il sindacato, il dato cola a picco: alla Fiat, che non è l’ultima delle fabbriche italiane, il bilancio finale è di un 25 per cento di operai assente, cifra che scende fino al 15 se si considerano anche gli impiegati.
E la pubblica amministrazione, altro settore tradizionalmente sindacalizzato? Qui non si raggiunge nemmeno la doppia cifra: alle 17 il dipartimento della Funzione pubblica tira le somme e scopre che l’adesione ha toccato il 6,99 per cento: un dato, si badi, parziale «poiché riferito – spiegano dal dipartimento – al 33,54 per cento dell’intero campione di riferimento», ma comunque eloquente. Naturalmente il dato è al netto, come di consueto, di personale assente per motivi diversi dallo sciopero (ferie, malattia, eccetera), che naturalmente il sindacato si annette in automatico. E nelle scuole la Cgil finisce addirittura dietro la lavagna: negli istituti aperti per le attività amministrative, non essendo incominciato l’anno scolastico, l’adesione è stata solo del 3,42 per cento con riferimento al 56,45 per cento del campione. Se si pensa che l’ultimo sciopero generale indetto dalla Cgil lo scorso 6 maggio alle 17 aveva fatto registrare un’adesione del 13,28 per cento dei lavoratori della pubblica amministrazione si comprende la portata del fiasco.
Alla fine la Cgil può cantare una mezza vittoria solo nei trasporti: ma qui basta poco per creare il caos. Malgrado ciò per le Ferrovie dello Stato è stato regolare il 94 per cento dei treni a lunga percorrenza e il 60 per cento di quelli regionali previsti in orario. Negli aeroporti di Roma e Milano circa 200 i voli cancellati, per buona parte però «riprogrammati» preventivamente. E nel trasporto pubblico adesione massiccia ma non bulgara: a Roma il 50 per cento nell’Atac ma solo il 22 alla Tevere Tpl, che gestisce le corse periferiche.
(IlGiornale.it)

La Sinistra e la CGIL hanno creato la voragine del debito pubblico. Ora scioperano, ma contro chi?


Le solite lacrime di coccodrillo della Sinistra: in decenni di politica demagogica,  iniziative demenziali, pratiche di sottogoverno, di clientele, di malversazioni, di decisioni contrarie ai reali interessi dei lavoratori hanno distrutto il Paese, hanno minato il suo ordine sociale, l’hanno gettato in una voragine finanziaria per cui il debito degli italiani è arrivato a 31.500 € a testa ed adesso hanno pure la faccia tosta di parlare. E di proclamare uno sciopero generale! Con tutti i difetti che possiamo avere, tutti in Europa e nel mondo, come riportano anche le cronache di questi giorni, riconoscono all’Italia un grande pregio : quello di essere un Paese parsimonioso, virtuoso. A livello individuale, le famiglie italiane sono le meno indebitate d’Europa, il risparmio pro-capite è il più alto del continente, ed il 70% degli italiani possiede la casa in cui abita, nonostante i nostri stipendi siano mediamente i più bassi tra quelli dei Paesi che contano. Vuol dire che in generale sono tanti gli italiani che hanno la testa sulle spalle e capaci di fare sacrifici per badare al sodo.
Questa è ricchezza vera, che tutti dall’Olanda alla Germania, dalla Spagna alla Francia ci invidiano, non futili chiacchiere. E se è vero che ognuno ha il governo che si merita e che il Parlamento rispecchia la situazione culturale e sociale del Paese di cui è uno spaccato, questa oculatezza nel gestire i conti pubblici è stata per decenni una delle caratteristiche peculiari di tutti i governi italiani, del Regno prima, della Repubblica poi.
L’Italia è sempre stata la formichina in una Europa ricca di cicale. Nell’Italietta umbertina la lira faceva premio sull’oro, vale a dire che la nostra moneta era talmente solida e solvibile da poter essere scambiata direttamente con il prezioso metallo. Durante il Ventennio, mai una volta che si fosse sforato il bilancio annuale, nonostante un sistema fiscale molto meno vessatorio di quello attuale ed una spesa pubblica molto orientata al sociale ed agli investimenti produttivi. Ed anche i primi governi repubblicani erano impostati col rigore proprio di chi è stato povero ed ha conosciuto la fame. Tutti conoscerete l’aneddoto dell’invito a cena al Quirinale di Indro Montanelli da parte del Presidente Luigi Einaudi, nel 1950. Arrivati alla frutta, il Presidente prese l’unica mela a tavola e nell’atto di sbucciarla chiese al Montanelli: “Senta, ne vuole mezza?” Altro che costi della politica.
Era un’Italia ancora povera, quella, ma ricca di sentimento, di rispetto per il prossimo, di umanità, di solidale spirito costruttivo, di patriottismo. Tutti sulla stessa barca a remare tutti nella stessa direzione. Poi sono arrivati gli anni ’60, quelli del Boom col PIL che cresceva quasi a due cifre. Ora è noto come l’economia sia una bestia strana e molto complicata, con la quale è difficile trattare. Comunque ci sono dei parametri molto macro che alla fine danno chiare indicazioni sullo stato economico di un Paese. Si sa, perché è divenuto quasi un assioma, che per svilupparsi un Paese industrializzato deve far viaggiare il PIL almeno al 3% l’anno. Quando questo succede, è perché gli investimenti crescono, l’occupazione cresce, tutto l’indotto si espande: prime e seconde case, auto, elettronica di consumo, vacanze, risparmio, ecc.
In questa situazione i Buoni fruttiferi dello Stato sono uno strumento finanziario appetibile e, siccome sono affidabili, ci si deve accontentare di un basso rendimento. Le entrate dello Stato crescono grazie a più Irpef, più Irpeg, più IVA,  per cui anche la spesa pubblica può crescere. Ma qui viene il punto. Crescere si, ma come? E qua entrano in ballo con le loro responsabilità la Sinistra  ed il sistema sindacale italiano dominato per decenni dalla CGIL.
E’ vero che in economia ci sono parametri che sembrano incongruenti. Ad esempio, la tanto temuta inflazione, se tenuta sotto controllo è bene che stia più vicina al 2% che allo zero, perché significa che la gente spende, per lo più con finanziamenti, cioè acquista a rate, il che è un atteggiamento positivo, indice della fiducia dei consumatori, ed un ottimo viatico per sostenere la produzione ed i consumi. Insomma, è un segnale forte del benessere della gente.
Un altro parametro che sembra incongruente è quello relativo all’indebitamento pubblico, largamente misurato con il rapporto Debito/PIL. Uno Stato in cui questo rapporto fosse vicino allo zero, sarebbe uno stato che non spende abbastanza per i propri cittadini, ovvero uno stato povero nei servizi e senza spese produttive  per incentivare, sostenere ed ammodernare la produzione industriale. Viceversa, all’estremo opposto, quando il rapporto raggiunge valori disumani come quello attuale in Italia, al 120%, allora c’è il rischio della bancarotta, perché le entrate dell’Erario son in gran parte divorate dagli interessi che lo Stato deve corrispondere sui titoli emessi, lasciando poco spazio alle spese correnti e per lo sviluppo sociale. S’innesca così una spirale perversa, per cui per quanto si “tagli”, e qui tutti strillano ovunque si metta mano, e si cerchi di aumentare le entrate, altre urla pure su questo versante comunque si faccia, il debito non diminuisce perché il PIL è basso a causa della non-crescita, quando non della recessione, ed in questa situazione la prima cosa che fa la gente è quella più disastrosa di tutte: smette di consumare. E allora diminuisce la produzione industriale, cresce la disoccupazione, diminuiscono le entrate fiscali dello Stato, con il debito e gli interessi che devono comunque essere onorati, per cui lo Stato non ha altro  mezzo che stampare carta per pagare la carta emessa in precedenza, cioè BOT e CCT pluriennali. Ma siccome gli investitori non sono fessi, perché se lo fossero la loro carriera di investitori sarebbe di brevissima durata, ecco che per comprare questa nuova “carta” richiedono ed impongono interessi sempre crescenti, non si accontentano più dell’1,5% ma pretendono il 4, il 5, il 6%. Quando vi dicono che  aumenta lo “spread con il Bund” è questa cosa qua. Ed allora giù altre mazzate al debito che va fuori controllo, e non se ne esce più, vedi la Grecia che qualsiasi cifra le presti la BCE il giorno dopo sta a secco, come se si volesse innaffiare il Sahara, ma per quante secchiate d’acqua ci si buttino sempre asciutto rimane. Un valore equilibrato tra debito e PIL si aggira attorno al 50-60%, ovvero la situazione è sostenibile e favorevole quando l’indebitamento sta sopra il 40% e sotto il 60 % della ricchezza prodotta annualmente, cioè il PIL. Sopra al 60% si arriva al disastro odierno, andare sotto al 40% significherebbe uno Stato non impegnato sul fronte dei servizi, per quantità e qualità. Ed allora vediamo un po’ come è andata in Italia, come si è giunti a questa situazione da bancarotta, e se quelli che adesso se la prendono con i “ricchi” ed il “sistema capitalista” che affosserebbe i diritti e le aspirazioni dei lavoratori possono avere voce in capitolo. Non faccio commenti, do solo cifre ufficiali che potete riscontrare dappertutto. Ancora nel 1970, governo Rumor, l’indebitamento stava al 40%. Poi, sull’onda delle battaglie demagogiche avviate dai “proletari” nel 1968 con l’Autunno Caldo, la formazione di bande armate contigue al PCI ed ai comunisti di Unità Proletaria, che arriveranno alla formazione di bande di compagni che prima “non esistevano”, erano solo un’invenzione di Aldo Moro; poi di fronte all’evidenza si esistono, ma non erano terroristi, ma “compagni che sbagliavano”, dicevo che sotto la spinta di vere e proprie sommosse con guerriglia armata, sostenute ed incoraggiate dall’URSS, i vari governi hanno cominciato ad allargare il giro delle spese improduttive e clientelari, solo per far “star buoni i compagni”.
In questo clima, il “peso”, che qualcuno chiamava forse più propriamente il “ricatto”, del PSI di Craxi è andato vieppiù aumentando e, per accontentare i socialisti, si è dato luogo ad una vera e propria travolgente valanga dei conti pubblici per una presunta spesa sociale, fatta invece di sprechi, di ladrocini, di clientele, di privilegi che ha sgretolato ogni residua resistenza dei centristi, terrorizzati dalla possibilità di “perdere le elezioni”. E per non perdere le elezioni, alla fine sono diventati più realisti del re, hanno innescato la corsa a chi spendeva di più ed hanno fatto pure peggio di quanto avrebbero potuto fare quelli che gridavano “è ora, è ora, il potere a chi lavora”. Si, ma chi lavorava che  il mito era il posto fisso, meglio se pubblico, ed il massimo del compiacimento dei “dipendenti fissi” era di vantarsi di rapinare lo stipendio con l’assenteismo, il menefreghismo ed il rintanarsi nei più oscuri meandri degli uffici, salvo poi in sede di rinnovo del contratto accampare diritti “imprescindibili” non si sa a fronte di quali meriti. Erano ancora tempi di vacche grasse, ma i sindacati, condizionati dall’arroganza e dal dispotismo della CGIL, invece di tutelare i veri interessi dei lavoratori, hanno agito in modo da tutelare solo i propri di interessi, auto-concedendosi privilegi inconcepibili, e difendendo le richieste irragionevoli, demagogiche, pretestuose ed autolesionistiche di quelli che lavoravano, sempre fregandosene di quelli che invece un lavoro non ce l’avevano. Ai quali, con il loro modo di fare, rendevano sempre meno probabile che ne trovassero uno. Invece di indirizzare le risorse verso impieghi produttivi, per creare nuovi posti di lavoro per precari e disoccupati, opportunità a favore delle future generazioni, incentivando e motivando gli imprenditori ad investire sempre di più e meglio inseguendo l’innovazione tecnologica per essere sempre più competitivi in Italia e all’estero, con la perversa regia della CGIL hanno bruciato il tesoro di cui disponevano, per pagare straordinari mai fatti, malattie immaginarie che coprivano debosciatezza ed assenteismo, spesso per coltivare interessi privati e personali. Così, molti impiegati dei Ministeri passavano il tempo a fare la schedina per poi scappare a casa a gestire la propria tabaccheria, il negozietto di elettronica, il botteghino del lotto. Gli insegnanti di sinistra  si davano malati od inoltravano ricorsi artificiosi sull’assegnazione delle cattedre, vantandosi poi nei circoli culturali “impegnati” o nelle assemblee sindacali di settore di aver “attuato iniziative per creare spazio per le supplenze” dei non in ruolo, ma in realtà celando dietro a questi la loro voglia di non impegnarsi nell’insegnamento, mirando solo allo stipendio mensile. Con la vergogna che gli stanziamenti dello Stato per la scuola sono sempre stati assorbiti solo dai loro stipendi e dalle spese correnti. Senza dire di quelli che con la colpevole copertura sindacale se ne andavano “in malattia” a fare le acque od i fanghi termali a spese dell’INPS. E dove li mettiamo i rimborsi spese, che loro chiamavano ripianamento delle perdite di gestione, di aziende gonfiate dal clientelismo, contrabbandato per “reperimento delle necessarie risorse umane” come l’Alitalia e  le FFSS, che avevano esattamente il doppio dei dipendenti loro necessari, o della Sanità o degli Enti Locali abituati e trattati da bambini cui si danno i soldi per il gelato, poi per il quaderno, poi per la penna, poi per lo zaino, poi per il cinema e così via, anziché responsabilizzarli dicendo loro: “Ecco, questa è la paghetta, fattela bastare”. Hanno abituato gli italiani a ritenere i servizi pubblici “dovuti a prescindere”, senza un coinvolgimento culturale e pecuniario che valesse a far percepire loro il costo per l’erogazione dei servizi stessi, tutti gestiti con deficit paurosi e in modo completamente svincolato da logiche e valori di mercato. Hanno dipinto gli imprenditori, specie quelli medio-piccoli, come sanguisughe, dei poco di buono, degli approfittatori, aizzando ed alimentando un bieco odio di classe. Col risultato di spaventare l’imprenditoria, e non solo quella di casa nostra, ma soprattutto potenziali investitori  internazionali: americani, inglesi, giapponesi, tedeschi, francesi, che visto l’andazzo da queste parti, hanno volto lo sguardo altrove. Salvo poi porre in atto scioperi ad oltranza come quelli a sostegno delle richieste delle grandi aziende del Nord che invocavano l’intervento dello Stato quando le cose non filavano per il verso giusto, minacciando di licenziare migliaia di fannulloni, – e magari lo avessero fatto- anziché eventualmente tutelare da nefaste conseguenze  l’indotto, per lo più costituito da costellazioni di piccole fabbriche, dove la gente lavorava duro, ma di cui la CGIL s’è n’è sempre fregata. Non si tutelavano i diritti dei lavoratori, bensì i privilegi di molti delinquenti incalliti, mascherati da dipendenti ed intrufolati nei posti di produzione, negli uffici pubblici, negli enti inutili. A cominciare da molti sindacalisti che si son sempre nascosti dietro il loro mandato per andarsene in pensione senza aver mai alzato un dito sul lavoro. E così, l’indebitamento che tra il 1960 ed il 1970 si era mantenuto ad un ottimale 40%, comincia a crescere raggiungendo il limite di guardia del 60 % nel 1975. Per qualche tempo si riesce a tenerlo sotto controllo. Ancora nel 1982, un anno in cui il Paese era euforico per la conquista del terzo titolo mondiale di calcio in Spagna,  si manteneva attorno a quella soglia. Ma poi arriva il 1983, Governo di Sinistra, quello del socialista Craxi che avrebbe dovuto portare la classe operaia in paradiso. In effetti qualcosa in paradiso ce lo portò: il debito pubblico. Nel primo anno di legislatura l’indebitamento aumenta del 10 % in una botta sola! Poi a seguire le performance sono + 6%, +4%, e + 6%, per cui a fine 1986 Craxi porta all’86% del PIL  un indebitamento che solo tre anni prima stava al 60%. Che bravo! I governi successivi tentano di porre un freno, ma ormai la tempesta scatenata dagli enormi interessi da pagare sul pregresso accumulato trascina la spesa pubblica in una  voragine senza fondo. Lo champagne viene stappato a fiumi nel 1991, anno in cui “finalmente” si può festeggiare il superamento di quota 100%. Chi c’era al Governo? Tutti, tranne quelli di Destra, che alcuni benpensanti consideravano appestati, altri fuorilegge. Premier Andreotti, che ormai aveva ogni attenzione per il PCI per non contrariarlo: con lui c’erano il PSI, il PSDI, il PRI ed il PLI. Lo chiamavano Pentapartito, ma è un falso storico, perché in effetti era un esa-partito che contava sull’appoggio, per decenza formalmente solo dall’esterno, del PCI. Nel 1992, fortunatamente il settimo Governo Andreotti -ammazza, meglio di Rambo e Rocky!- va al mare dopo solo 2 mesi dal suo insediamento, per cui c’è spazio per il più intelligente ed illuminato di tutti, un altro socialista, il Dr. Sottile della politica: Giù li ano (per carità, senza apostrofo tra li ed ano) Amato il quale entra di prepotenza nel libro del Guinness dei primati, dove primati va inteso come record, non famiglia degli esseri viventi dai quali secondo Darwin è disceso l’uomo. Infatti, il talentuoso Mickey Mouse della politica italiana, nato a Torino da siciliani, ma cresciuto in Toscana (ma dai, è uno scherzo?) è riuscito nella titanica impresa di far crescere l’indebitamento di un  ulteriore 10% in un sol colpo, portandolo  al 110% del PIL, il tutto non in un anno come il Primo Craxi, ma in sei mesi! L’anno dopo l’ineffabile e didattico Premier si ripete e raggiunge quota 120 % tra la stupefatta ed incondizionata ammirazione del Paese e del mondo intero che si interroga invidioso: “Ma come fa? Beata l’Italia che ce l’ha”.
Era la stagione di Mani Pulite, il Pastore Molisano ringhiava ed addentava a destra ed a sinistra, anzi no, a sinistra no, però insomma addentava qui e là. Fu allora che il nostro Giù liano, sopravvalutando certe sue tracce di mascolinità, decise che anche lui  “le aveva” e cercò di sottrarre le indagini “fai da te” di Mani Pulite all’incombenza di un giustizialista fallito e sanguinario per affidarle alle professionali capacità delle preposte Forze dell’Ordine. L’allora Presidente della Repubblica, Oscarda Bagno, Luigino per gli amici, che da Ministro dell’Interno intascava 100 milioni al mese per tutelare “la sicurezza degli Italiani”, rifiutò di firmare il relativo decreto, per cui Topolino si infuriò, ed indignato rivolse ad una Camera allibita e preoccupata, a microfoni RAI ben aperti, il suo storico discorso di addio, annunciando : “Questa politica italiana non mi merita. Lascio qui e manterrò la mia promessa: non mi vedrete mai più impegnato in politica. La chiudo qui. Ciao, mamma!” Era il 1993. Infatti, nel 1994 Amato (ma da chi? Boh) viene nominato, Governo D’Alema, Presidente dell’Antitrust per tre anni, sino alla sua nomina a Ministro per le Riforme Istituzionali dal 1998 al 1999, prima di dar vita al governo Amato Bis tra il 2000 ed il 2001. E’ stato di parola; questa è la credibilità di quelli della Sinistra che hanno potere di vita o di morte sulla vostra esistenza. E parlano ancora! Nel 1993, il super coerente Amato lascia il campo ad un professionista della finanza, che di politica ne capisce poco o niente, ma i conti li sa fare visto che ha governato la Banca d’Italia :Carlo Azeglio Ciampi. Intervenendo anche con misure strutturali, cioè non solo con delle una tantum per far cassa, pone un freno al disavanzo che smette di crescere attestandosi al livello record del 121%.  Ma la sterzata positiva arriva nel 1994 col Primo Berlusconi il quale, da buon imprenditore, dopo essersi messo le mani nei capelli, si siede al tavolo con carta e matita e con perizia e santa pazienza cerca di rimettere a posto i conti. Con misure incisive e non recessive il suo Governo, poi proseguito in modalità tecnica da Dini, dà un‘impostazione che sana il sanabile e per qualche anno l’indebitamento tende progressivamente a ridursi con  effetti positivi di cui beneficiano pure i successivi governi Prodi e D’Alema, scendendo al 109%. Meno 12 %, non male. Pare che ci si sia finalmente avviati sul cammino virtuoso del risanamento. L’impressione sembra trovare positiva conferma nel fatto che neanche il secondo Governo Amato, ricicciato dal nulla, riesce ad invertire la tendenza e si scende al 107,5 %. Si arriva al 2001, al secondo governo Berlusconi, il quale, senza mettere le mani nelle tasche degli italiani, porta l’indebitamento al 105%. Pare un sogno, si possono cominciare a fare dei programmi di sviluppo. Ma la Magistratura incombe, è in agguato, non è d’accordo: se va tutto bene, a quello quando lo cacciamo? E noi che ci siamo impegnati con la Sinistra e la CGIL che figura ci facciamo? Ecco allora che nel 1996 rimettono in sella quello che è riuscito pure a fare consulenze, pagate, a sé stesso, a Roma di uno così dicono che “se ‘a canta e se ‘a sona”, che mediando democraticamente tra ex democristiani spennacchiati e vetero-comunisti impegnati “rilancia” la spesa sociale senza che nessuno ne avverta il beneficio, anzi. Ed ecco due +2,5% consecutivi, seguiti da un altro Craxiano o Amatiano 6% et voilà les jeux sont faits e l’indebitamento torna al 116%. Quando è entrato in carica, l’attuale Governo si è ritrovato non solo un debito di 11 punti superiore a quello che aveva lasciato, ma col carico di una crisi recessiva internazionale che non ha pari dopo quella funesta del 1929. Adesso che fare? Non crescendo il PIL, l’unica manovra possibile è quella sui tagli, per quanto impopolare possa essere, per far si che  il rapporto Debito/PIL non cresca ulteriormente. Una ulteriore difficoltà sta nel fatto che mentre la manovra deve essere efficace e rapida nei suoi effetti, non deve essere recessiva perché se nella frazione diminuisce il PIL allora si mette male. Ma tanto male. Poi ci vuole che Sarkozy, tra un bombardamento e l’altro, trovi il tempo con la Merkel e Tremonti, o chi per lui, per dare vita agli Eurobond, come del resto chiesto dalla BCE che in materia è sovrana e non assoggettata alla politica. E’ comprensibile che per francesi e tedeschi sia dura da mandar giù questa, ma o si fa così, o altrimenti lasciamo perdere con questa sceneggiata teatrale che è l’Europa attuale. Allora, caro Nichi, adesso l’hai capito perché le tue domande sono infantili e stupidine? Che significa urlare in TV, nella vostra TV di Stato che noi vi paghiamo e dalla quale insultate la Destra ed il Governo, per chiedere chi ha fatto i debiti? Li avete fatti voi di Sinistra; i Craxi, gli Amato ed i Prodi li hanno fatti. In tre hanno accumulato in 6 anni il 57 % dell’indebitamento complessivo. Senza quei tre staremmo oggi al 62%, ci pensate? Al 62%! Per rendervi conto, tenete presente che per mantenere l’indebitamento invariato al 119 % adesso dobbiamo fare una manovra da 45 miliardi €, mentre se Craxi e soci non fossero mai esistiti avremmo 800 miliardi € in meno sul groppone, quasi l’equivalente di venti volte il valore di questa manovra i cui effetti in tanti temiamo. E li hanno fatti i sindacati sotto l’egida della CGIL questi debiti, con la connivenza di pavidi governi centristi o la copertura di becere compagini sinistrorse per passare stipendi, tredicesime e ferie a quelli che non lavoravano, alle sanguisughe che speculavano sul lavoro dei propri colleghi. Con scioperi di mesi per rinnovare contratti a condizioni capestro. E’ colpa della politica cgiellina del “tutto e subito”, del voler bruciare ogni risorsa per farsi la macchina nuova, senza pensare alle future generazioni. Allora, smetti di soffiare saliva dai tuoi radi incisivi e studiati la storia. Hai minacciato di andartene, ma sei peggio di Amato. Almeno lui ha fatto finta di averlo fatto per alcuni mesi, ma tu manco quello. Allora, te ne vai o no?
Di: Caelsius  fonte blog: "questa è la sinistra Italiana"

Statale, primo corso di studio sull'omosessualità.


Milano, 11 gennaio 2011 - Al via a Milano il primo corso universitario di Conoscenza e studio dell’omosessualità. Ad ospitare il singolare ‘laboratorio di autoformazione’, proposto all’ateneo milanese dall’associazione di studenti ‘Gay Statale’, sarà la facoltà di Scienze politiche.
"L’Università Statale ha inserito nel programma di studi un corso facoltativo che varrà 3 crediti formativi - spiega Antonella Besussi, ordinario di Filosofia politica della Statale e coordinatrice del corso -. I docenti provengono anche da atenei di Roma e di Padova e il laboratorio è progettato per vedere come si riflette sul tema dell’omosessualità in diverse discipline accademiche”.
Una prima parte del corso, che partirà il 20 gennaio e proseguirà con cadenza settimanale fino ad aprile, prevede lo studio teorico del fenomeno dell’omosessualità, mentre una seconda parte si concentrerà più sulle differenze di genere e di razza in campo sociale e sulle possibili discriminazioni che ne possono derivare. “Non si tratterà assolutamente di un corso che vuole orientare chi lo frequenta a scelte politiche ben precise - assicura la coordinatrice - ma è stato proprio progettato dagli studenti per comprendere e studiare il fenomeno dell’omosessualità”.

Ora Pisapia insegna ai bambini la famiglia gay


Milano Due grossi pinguini maschi in frac e bombetta giocano a palla con due baby pinguini. «Pure voi siete una famiglia?» chiede Piccolo Uovo, il protagonista della favola politically correct disegnata da Al­tan, e presentata ieri alla festa milanese del Pd come lettura per i bimbi dell’asilo. «Sì! - risposero i due papà insieme ai loro piccoli». È una delle avventure tra le cop­pie gay di Piccolo Uovo, il fumetto che vuo­le «raccontare tutte le tipologie di fami­glie, non solo quelle etero».
L’idea proposta durante la festa del Pd è di adottare la favoletta come libro di lettu­ra negli asili milanesi. Sul palco Rosaria Iardino, membro del coordinamento na­zionale per le donne del Pd, la consigliera regionale lombarda del Pd Sara Valmaggi e Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano. Lui spiega: «Gli asili non sono mia compe­tenza. Ma ho letto il libro a mio figlio e da padre lo consiglio agli altri padri. Mi piace­rebbe anche che i bambini potessero di­scuterne tra di loro». Majorino è l’assessore che ha voluto la delega alle Famiglie, al plurale per dire che non c’è solo un tipo di famiglia, come recita la Costituzione, quello formato da marito moglie e figli, ma «molti tipi di fami­glia ». E Piccolo Uovo racconta il viaggio di un uovo che prima di nascere «vuole cono­scere le diverse tipologie di famiglie: con genitori etero e omosessuali».
Nei giorni scorsi è stato il sindaco di Mi­lano, Giuliano Pisapia, parlando dalla fe­sta del Pd, a sostenere di aver «rispetto» per le posizioni della Chiesa e per la fami­glia, così come indicata dalla Costituzione italiana, ma che lui è di tutt’altro avviso: «La Costituzione afferma che la famiglia è fondata sul matrimonio. Io la penso diver­samente ». Pisapia ha poi aggiunto di voler spiegare questi concetti a Benedetto XVI. L’obiettivo di oggi è ancora più ambizio­so: trasmettere tali idee sulla famiglia ai bambini dell’asilo, così da «far percepire loro come naturali i cambiamenti che stan­no trasformando la nostra società». Spie­ga la pd Rosaria Iardino: «Abbiamo chie­sto all’assessore Majorino di favorire l’in­serimento questo libro nelle scuole mater­ne, tra i volumi che vengono adottati dagli asili gestiti dal Comune. In realtà testi del genere circolano già in inglese. Il nostro obiettivo è di fornire gli asili di libri come questo in lingua italiana». Una sponsoriz­zazione delle adozioni gay? La Iardino non lo dice: «Per i maschi omosessuali è già possibile avere figli con una madre sur­­rogata, per le donne omosessuali c’è la pro­creazione medicalmente assistita».
Piccolo Uovo, il protagonista del fumet­to di Altan, è un gamete femminile. Come ognun sa, deve congiungersi con il gamete maschile, più comunemente detto sper­matozoo, perché nasca un bimbo o una bimba. Ma il naturale concetto di maschi­le e femminile sembra ignoto al racconto per gli asili. Ecco due micie infiocchettate. «Ehi voi, siete una famiglia?» domanda Piccolo Uovo. «Sì, dissero le due mamme insieme al loro gattino».
Accanto alle famiglie gay, ci sono anche le monogenitoriali (ippopotamo single con figlio) e le coppie miste formate da un cane nero e una cagnolina bianca. Ma alla fine la più strana è la famiglia di conigli ete­ro, banali maschio e femmina, con tre figli coniglietti. La mamma ha un fiore tra i ca­pelli, il papà uno sgargiante panciotto. Da­vanti a tanta semplicità, forse Piccolo Uo­vo sarà rimasto confuso.

fonte: "il giornale web"

martedì 6 settembre 2011

Uggé: “Chi vuol far ripartire l’economia prenda esempio dall’autotrasporto”


“Trovo inadeguato e strumentale il modo in cui si comunica, la richiesta di discontinuità al Governo. Strumentale  perché dietro la parola discontinuità si  lasciare intendere che il cambio del Governo possa risolvere i gravi problemi legati a speculatori che operano a livello mondiale; inadeguato perché in momenti di difficoltà come questo sarebbe invece doveroso domandare una forte azione del Governo per rilanciare iniziative sulla competitività.
Quando la casa brucia non si discute su chi  deve spegnere l’incendio, ma si deve concorrere tutti a portare l’acqua”. È questo il commento del presidente della Fai Conftrasporto, Paolo Uggè, all’iniziativa portata avanti da realtà rappresentative  del mondo del lavoro e delle imprese che in  nota congiunta hanno chiesto al governo misure per la crescita  non limitandosi a puntare solo sul rigore dei conti, comunque necessario, ma anche sulla leva economica, su misure per spingere una crescita troppo lenta. “Per riportare l’economia del Paese in carreggiata sarebbe più opportuno che tutte le componenti sociali venissero invitate piuttosto a fare la propria parte con generosità”, ha proseguito Paolo Uggè, sottolineando l’esempio delle imprese  dell’autotrasporto che “sono pronte a sopportare rinunce significative, in cambio di garanzie sul rispetto delle leggi della sicurezza”. “La strada non è allora lasciare intendere che il cambio del Governo possa risolvere i gravi problemi legati a speculatori che operano a livello mondiale. Questo significa solo aggravare ancor più la situazione che non potrà certo essere affrontata e  risolta da un insieme di forze politiche che hanno tutte una visione diversa sui temi dell’economia.
L’obiettivo di queste forze è solo cambiare la legge elettorale e poi andare a nuove elezioni. Il che significa bloccare qualsiasi iniziativa per almeno un anno. La gente e le imprese non sono interessate  a manovre di palazzo ma chiedono a un governo che ha la maggioranza in Parlamento di cambiare passo e di governare questi difficili momenti. Le soluzioni devono essere il frutto di un confronto con le parti sociali da aprirsi subito. Il senso attribuito all’appello del presidente di Confindustria”, ha proseguito Paolo Uggè, “sembra invece quello di dar fiato a coloro che operano per un governo diverso riproponendo formule del passato che non hanno mai dato risposte utili al Paese. Un conto è incalzare il Governo sulle azioni da fare avanzando proposte al Governo che puo’ e deve fare molto di più’; un conto è invece lavorare con lo scopo non tanto recondito di creare gli spazi per far posto a un nuovo esecutivo del “non fare” dove  ognuno vorrà far pesare il proprio consenso, anche se modesto.
Così  si getta solo il Paese nella più totale inattività. Su quale politica economica si baserebbe il “nuovo governo”?  Solo su nuove tasse e basta. E quale politica di sviluppo potrebbe esserci per il Paese? Quale strategia per la competitività, per i trasporti le infrastrutture? Forse il wealfare? Certo il presidente Berlusconi deve dare un impulso nuovo e decidere sulle questioni dell’economia in tempi rapidi. Basta con le manfrine. Decida e ponga l’aut aut sulle iniziative concordate con le parti sociali e su quelle ponga il prendere o lasciare.  I cittadini sapranno individuare chi ha a cuore l’interesse del Paese e chi invece quello dei  poteri forti”.

fonte blog: "stradafacendo"

lunedì 5 settembre 2011

L’affare Seat-Telecom e i magheggi di Prodi, D’Alema, Cossutta, Visco e compagnia. Nessuno indaga?


Riproponiamo l’articolo “L’affare Seat-Telecom” sperando che qualcuno (magistrati?) ci dica, finalmente, dove sono finiti i 6,7 miliardi di euro spariti in Lussemburgo. Protagonisti, con ruoli diversi, i sigg: Prodi, D’Alema, Visco, Ciampi, Cossutta, Del Turco, Pelliccioli, Drago, Tazartes, Erede.
Tra le “strane” operazioni compiute da “tecnici” con un “alto senso dello Stato”, quelle intorno a Telecom e dintorni sono le più sfacciate rapine effettuate ai danni dell’erario e dei piccoli azionisti. La straordinarietà di tali operazioni, il cui vantaggio economico è tutto da dimostrare, è consistita nel fatto che esse sono servite a ricoprire d’oro alcuni azionisti…
Il caso più clamoroso, anche se non il solo, purtroppo, è rappresentato dal viaggio di andata e ritorno della Seat: dalla Stet al ministero del Tesoro (autunno ’96), dal Tesoro ad azionisti privati (luglio ’97), dai privati a Telecom (operazione annunciata a febbraio, conclusasi a giugno 2000); a febbraio il premier è D’Alema, ministro del Tesoro Amato, a giugno il premier è Amato, il ministero del Tesoro è assorbito in altri dicasteri, i ministri economici sono Visco e Del Turco). Alla fine dell’operazione qualcuno ha incassato 6,71 miliardi di euro (13mila miliardi di lire) pagati da mamma Telecom, che a causa di questa operazione ha accusato nel 2001 un vistoso calo di profitti.
Dettaglio di un’operazione da “tecnici con alto senso dello Stato”:
Nel luglio ’97, il Tesoro (Ciampi, premier Prodi) vende il 61,27% della Seat alla società Otto-Ottobi, incassando 853,7 milioni di euro lordi, sulla base di una valutazione complessiva dell’azienda di 1,65 miliardi di euro, e contemporaneamente la Telecom paga 170 milioni di euro alla Otto-Ottobi per il 20% della società. Tutto si può dire tranne che il Tesoro abbia concluso un affare. I fatti dimostrano che gli acquirenti hanno pagato meno di due volte il fatturato di una “gallina dalle uova d’oro” con un business garantito per i dieci anni a venire…e la conferma verrà nel 2000 quando, per acquistare dagli azionisti della Otto-Ottobi il controllo della Seat, la Telecom non esiterà a valutarla 20miliardi di euro.
L’ardito marchingegno finanziario che ruota attorno alla Otto-Ottobi, rende completamente opaco l’assetto proprietario della Seat. Questa assoluta mancanza di trasparenza impedirà in seguito di conoscere nel dettaglio i nomi dei beneficiari di 6,71 miliardi di euro (13mila miliardi di lire, mica noccioline, no?) versati da Telecom Italia al Magnifici Otto in cambio del controllo della Seat. Il Tesoro (Ciampi) è al corrente dell’alveare societario che forma l’azionariato della Otto-Ottobi nel momento in cui le consegna il 61,27% della Seat?. Ed è al corrente che un azionista col 10% del capitale che corrisponde al nome di Investitori Associati II è a sua volta un sotto-sistema di finanziarie in gran parte domiciliate in paradisi fiscali off-shore non riconducibili a persone fisiche e totalmente esenti da imposte in Italia ?.
E non è finita. Tra i boss della Seat e i soci della Otto-Ottobi vi è totale sintonia di interessi. Pelliccioli (quello dei 160 miliardi di lire di liquidazione), comincia col non distribuire il dividendo del bilancio 1997, che spetterebbe per la quasi totalità al Tesoro (Ciampi, Prodi premier), rimasto azionista della Seat fino al 25 novembre. Evidentemente deve esserci un accordo tra acquirenti (i Magnifici Otto) e il venditore (il Tesoro, cioè Ciampi, premier Prodi), in base al quale quest’ultimo rinuncia ad incassare la quasi totalità dei 78,5 milioni di euro di utile netto dell’esercizio 1997. Ma questi profitti non riscossi non sono gli unici che lo Stato lascia “in dote” ai nuovi azionisti. La società (Seat) viene infatti consegnata alla Otto-Ottobi con 258 milioni di euro di liquidità che il Tesoro (Ciampi, premier Prodi), volendo, potrebbe prelevare con un dividendo straordinario, così come farà con l’Enel poco prima della privatizzazione. Dagli 1,65 miliardi di euro di valutazione della Seat all’atto della vendita bisognerebbe quindi sottrarre, a rigor di logica, i quasi 337 milioni di euro di disponibilità finanziarie che i nuovi azionisti vi trovano in cassaforte. Il dettaglio non è di poco conto perché l’acquisizione della Seat si configura come un’operazione con cui gli acquirenti finanziano l’acquisto dell’azienda con la liquidità che essa ha “in pancia”, con l’obiettivo di rivenderla e ricavarci una maxi-plusvalenza quando le quotazioni saranno salite alle stelle.
All’inizio del febbraio 1999 il Cda Seat decide di distribuire un dividendo straordinario di 905 milioni di euro dando fondo alle riserve di bilancio. Questo dividendo va ad aggiungersi a quello ordinario, che per l’esercizio 1998 ammonta a 148 milioni di euro, praticamente al 100% dell’utile. Quindi oltre 1 miliardo di euro di dividendo complessivo, di cui 645 milioni affluiscono nelle casse della Otto-Ottobi…la società acquirente della Seat preleva dunque dalle casse di quest’ultima, a un anno e mezzo soltanto dalla privatizzazione, una quota capitale addirittura superiore al debito contratto per acquistarla. A farne le spese è la Seat, che passa da un saldo positivo di 387 milioni di euro a uno negativo, cioè ad un debito netto di 671 milioni di euro. Questo sì che è creare valore!!!!!
All’inizio del 1999 gli investitori della Otto-Ottobi possiedono il 61,27% delle azioni ma per mantenere il controllo è sufficiente il 50% più un’azione. Incaricano la Lehman di collocare presso investitori istituzionali l’11% del capitale…e l’operazione si consuma in un attimo generando un incasso di oltre 465 milioni di euro. Prima 645 milioni di euro di dividendo e ora altri 465 milioni dalla vendita di un pacchetto di azioni. Si comincia a rientrare ampiamente dall’investimento effettuato meno di due anni prima.
Sarà una coincidenza, ma la vendita di quell’11% della Seat spinge i suoi azionisti, nel febbraio 1999, a trasferire anche la proprietà della Otto-Ottobi in Lussemburgo, dove la maggioranza dei soci ha già eletto il proprio domicilio. Dalla sera alla mattina, il 61,27% della Seat viene trasferito nel Granducato a due società di nuova costituzione, la Huit I e la Huit II, fotocopia (siamo nel febbraio’99, il ministro del Tesoro è Ciampi, premier D’Alema) di quelle utilizzate 18 mesi prima per l’acquisto dal Tesoro (’97, ministro del Tesoro Ciampi, premier Prodi). E’ l’apoteosi dell’elusione fiscale. Ma il ministro delle Finanze Visco sembra disinteressarsene. Ignorando il trasferimento della proprietà della Seat in Lussemburgo, lo Stato italiano si nega di fatto la possibilità di incassare le imposte (tasse) sulle plusvalenze che saranno realizzate al momento della vendita a Telecom.
Quadro riepilogativo della svendita di “Seat Pagine Gialle” (cioè d’oro):
Riassunto di come si acquista dallo Stato (la Seat) che ha un terzo di fatturato aziendale già garantito (da Telecom) fino al 2007, con fideiussioni (del socio nell’affare) Comit (finanziamento del debito studiato da Cossutta), e si diventa miliardari in euro in due anni senza nemmeno pagare le tasse. Cioè in poco più di due anni la “cordata” che s’è aggiudicata la Seat, pagandola 853,7 milioni di euro, ha cavato dalla società stessa 935 milioni di euro di dividendi che le hanno permesso di rimborsare i 622 milioni di euro di debiti contratti per l’acquisto, spese accessorie incluse. Se ai dividendi aggiungiamo i 465 milioni di euro ottenuti dalla vendita dell’11% di azioni, pari a una rivalutazione del 255% in due anni, otteniamo un primo bilancio dell’incredibile operazione. Pelliccioli, Drago, Cossutta, Tazartes, Erede: ecco i nuovi finanzieri della seconda repubblica.
Dal 1999…la proprietà delle azioni Seat si è spostata in Lussemburgo, dove il fisco italiano non arriva, e tutto è pronto per il colpo finale: la vendita alla Telecom, passaggio propedeutico alla fusione Seat-Tin.it.
Tra poco vedremo i soci della Huit convolare a nozze con Roberto Colaninno.
Ma in che mani sono finiti quei 6,71 miliardi di euro (13 mila miliardi di lire!!!) pagati dalla Telecom per comperare il controllo della Seat ? Che strade hanno battuto prima di arrivare a destinazione ? (l’affare Telekom-Serbia ne sa qualcosa ?) Per ora si possono dare risposte parziali. Si può per esempio affermare, senza tema di smentita, che quei 6,71 miliardi di euro, usciti da una società con sede sociale a Torino (la Telecom) per l’acquisto di un’altra società domiciliata nella stessa Torino, a qualche isolato di distanza (la Seat), sono transitati per uno Stato nel quale non si pagano imposte, che garantisce il più assoluto anonimato in fatto di investimenti (il Lussemburgo).
Ndr: I 6,71 miliardi di euro (13mila miliardi di lire) versati dalla Telecom ai soci della Seat si sono persi in un labirinto di società in cui finora nessuno ha voluto addentrarsi. E se cominciassimo ad occuparcene ??
Per ulteriori informazioni consigliamo la lettura del libro “L’affare Telecom” di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons Sperling & Kupfer Editori.

NOTA: tratto da SBFC.
Articolo a firma Vittorio Baroffio interamente tratto dal sito laseatsiamonoi.com.
Qui l’articolo originale
fonte blog: "questa è la sinistra italiana"