Il 30 maggio del 2005 con il “no” francese al referendum sulla Costituzione Europea, l’Unione rischiò di morire a causa della paura per “l’idraulico polacco”. Dopo quel fallimento arrivò anche il “no” olandese che costrinse le élite europee a rinunciare all’idea stessa di Costituzione. Ma persino il molto meno ambizioso Trattato di Lisbona, sottoposto al voto popolare in Irlanda nel 2008 fu sonoramente bocciato.
Sono solo alcuni dei gravi incidenti di percorso che nell’ultimo quinquennio hanno visto la sopravvivenza dell’idea di Europa messa democraticamente in discussione dai suoi stessi cittadini. E ogni volta gli establishment europei e nazionali hanno trovato il modo di nascondere la questione sotto il tappeto, girare le spalle al giudizio degli elettori e rattoppare il tessuto comunitario per tenerlo insieme in un modo o nell’altro. All’epoca del referendum Irlandese il presidente Napolitano arrivò persino a minacciare Dublino di espulsione dall’Europa per il suo voto.
Così oggi che l’Unione rischia di essere travolta dai manovali magrebini, dai contribuenti greci, dai banchieri irlandesi, dai proprietari immobiliari spagnoli, dai debitori portoghesi, rimane ben poco da rattoppare e l’Europa nel suo complesso appare un’arena dove tutti sono in guerra contro tutti.
I segnali si sono addensati negli ultimi mesi e parlano da soli. Le divisioni intra-europee sull’intervento in Libia, lo scontro tra i governi italiano e francese sulla gestione degli immigrati nordafricani, il braccio di ferro tra la Germania e la Bce sui bailout dei debiti sovrani di Grecia e Portogallo, la nascita ormai quasi ufficiale di un “club europeo della tripla A” con i sei paesi senza macchie sul debito che si sono riuniti a gennaio a Bruxelles prima dell’incontro dell’Ecofin, la contrapposizione continua tra governi e banche sulla ripartizione delle perdite da titoli tossici, gli stress test e le nazionalizzazioni, le paure est-europee per l’espansionismo russo e le delusioni sud-europee per la mancanza di una politica mediterranea. E’ solo un rapido elenco delle fratture che attraversano la costruzione europea e ne minano la credibilità interna e internazionale.
Non è strano dunque se i cittadini dei paesi membri trovino nelle elezioni locali e nazionali uno sfogo per la loro disaffezione, una rivincita per l’incapacità di incidere sui meccanismi comunitari e una condanna verso le élite nazionali paralizzate dai veti e dagli obblighi europei. Quello che i giornali del vecchio continente continuano da tempo ad etichettare – non con un certo disprezzo - come il montare delle destre nazionaliste, populiste o xenofobe altro non è che il grido di allarme di cittadini che sentono di aver perso il controllo sulle cose che li riguardano più da vicino.
Il più recente caso finlandese, con l’incredibile affermazione del partito di Timo Soini, True Finns che nelle elezioni politiche ha quintuplicato i suoi voti arrivando al terzo posto, è la dimostrazione più eloquente di questo disagio. La Finlandia non è un paese tradizionalmente euroscettico, anzi, condividendo la più lunga frontiera con la Russia di ogni altro paese europeo, ha sempre visto l’adesione all’Unione come un fattore chiave della sua sicurezza nazionale. Il rifiuto di partecipare al finanziamento degli 81 miliardi di euro richiesti dal salvataggio del Portogallo è stato però l’elemento simbolico che ha sospinto il True Finn nelle urne. Una protesta duplice: contro l’indisciplina finanziaria dei paesi meridionali ma anche contro la pretesa tedesca di salvare quei paesi a spese di quelli più ricchi e previdenti.
Il caso finlandese non è certo isolato in Europa. La stessa spinta anti-establishment, sia esso di destra o di sinistra, conservatore o progressista si vede in molti altri paesi europei. In Francia, dove il Fronte Nazionale di Marine Le Pen è data in vantaggio su Nicolas Sarkozy nei sondaggi per le presidenziali del 2012; in Ungheria dove nelle elezioni del 2010 il partito Jobbik ha preso un inatteso 17 per cento e 47 seggi in Parlemento; in Olanda e in Danimarca, Geert Wilders con il suo Freedom Party e Pia Kjærsgaard con il Partito Popolare danese sono entrati nelle compagini di governo a l’Aia e a Copenaghen; in Svezia, tempio della socialdemocrazia, i Democratici di Jimmie Akesson sono entrati in Parlamento con una piattaforma apertamente anti-immigrati. Ma si tratta di un fenomeno che non riguarda soli i paesi ricchi del nord: anche la Lega in Italia condivide caratteristiche comuni a questa tendenza.
Se il livello di analisi nel dibattito pubblico europeo continuerà a interpretare simili fenomeni come una forma di involuzione populista e tendenzialmente poco democratica, senza coglierne al contrario il tentativo di una riconquista da parte degli elettori di spazi sempre più devoluti alle tecnocrazie sovranazionali di Bruxelles o di Francoforte, la salute complessiva dell’organismo comune europeo non potrà che peggiorare e dell’Unione non resterà che un sussiegoso strascico retorico.
Questo succede quando, mascherata da politically correct, si vogliono imporre decisioni sgradite ai più.
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