di Lucia Bigozzi14 Aprile 2011
Il via libera della Camera al processo breve dice due cose. Sul piano politico conferma che la maggioranza c’è e in Parlamento ha i numeri. Sul piano tecnico passa un provvedimento che da un lato l’Europa ci impone, dall’altro rappresenta una battaglia di principio contro i processi-lumaca, gli stessi per i quali lo Stato paga 118 milioni di euro di risarcimento alle vittime dei ritardi di una giustizia inefficiente. Ai quali si aggiungono le cause intentate per la lentezza dei rimborsi, come indica il dossier del Centro studi di Montecitorio. E non è che si può non fare una norma che l’Europa ci impone e che serve ai cittadini perché in mezzo ci sono anche i processi di Berlusconi il quale è sì il premier ma è pure un italiano come tutti gli altri.
In tutta questa vicenda c’è molta strumentalizzazione ed è la storia, tribolata, della norma a dimostrarlo: un anno di stop and go, polemiche a non finire manifestazioni di piazza e barricate dalle opposizioni, compresi i finiani che prima dell’uscita dal Pdl hanno condizionato dall’interno l’iter del provvedimento, poi dall’esterno facendo muro insieme a Casini, Bersani e Di Pietro. Una norma uscita dal Senato e profondamente modificata alla Camera con una mediazione lunga e difficile sui contenuti (e dunque frutto di una mediazione politica alla quale il centrodestra non si è sottratto) nella quale, al netto dei contenuti, si è innestata l’ennesima ‘crociata’ anti-berlusconiana degli avversari vecchi e nuovi.
Dalla norma ad personam o salva-Berlusconi in giù, in questi lunghi mesi dentro e fuori il Parlamento se ne sono viste e sentite di tutti i colori e il punto è sempre lo stesso: togliere di mezzo il Cav. non per via politica ma per via giudiziaria e la via maestra che così ostinatamente il fronte delle opposizioni ha cercato di perseguire, ad esempio nel processo Mills sbandierato come la ‘prova regina’ della legge ad personam, è portare il premier in tribunale e ad una sentenza di condanna in primo grado per impostare su questo l’ennesima grancassa mediatica finalizzata a indebolirne l’immagine da qui alle elezioni politiche che, a questo punto, visti i numeri di ieri in Parlamento, sembrano rinviate al 2013. Si può forse contestare la tempistica del provvedimento (in Parlamento) ma non la sua necessità, tantomeno aizzare la piazza come accaduto nelle settimane scorse e pure ieri davanti a Montecitorio dove il popolo indignato a prescindere ha ripetuto il solito cliché: morte al tiranno. Arrivando perfino a strumentalizzare il dolore di chi nella tragedia di Viareggio o nel terremoto dell’Aquila ha perso familiari e amici sostenendo che con questa legge i responsabili resteranno impuniti.
Alla Camera la maggioranza ha superato lo scoglio forse più temuto: con 314 sì e 296 no l’Aula ha approvato il disegno di legge che ora torna al Senato. Non solo ma ha incassato otto voti in più rispetto a quelli di Pdl, Lega e Responsabili nel passaggio più delicato di tutta la giornata: il voto a scrutinio segreto chiesto e ottenuto dal Pd su un emendamento all’articolo 3 del ddl, quello sulla riduzione dei tempi della prescrizione. Otto voti arrivati dalle file dell’opposizione rivelando se mai ce ne fosse stato bisogno da un lato la debolezza dell’opposizione e la linea perseguita dalla sinistra in tutti questi mesi, dall’altro che poi questa norma alla fine cosìm deleteria per il Paese non è. Otto voti che hanno scatenato la bagarre fuori e dentro l’Aula.
L’attenzione si è appuntata sui finiani e in particolare sui moderati, i parlamentari vicini a Urso e Ronchi sempre più insofferenti per la gestione del partito (leggi Bocchino). Entrambi hanno smentito parlando di “falsità” ma i ‘sospetti’dell’ala oltranzista di Fli restano e su questo ieri si è innestato un’altra bagarre futurista. Tuttavia c’è anche chi, in Transatlantico, dava per certo i voti non solo di alcuni finiani ma pure di qualche deputato centrista e democrat.
Al netto delle congetture, i risultati parlano da soli. Non c’è dubbio che per il Cav. e la maggioranza quella di ieri sia stata una vittoria, politica e di prospettiva. Lo segnalavano in molti nei commenti durante la maratona a Montecitorio sottolineando come adesso il centrodestra possa procedere sulla via delle riforme. La stessa indicazione arrivata dal premier che ai suoi ha ribadito: ora andiamo avanti come un treno.
Che Berlusconi veda ormai come certo il traguardo naturale di questa legislatura, nel 2013, è un fatto che nelle file della maggioranza viene dato per assodato e che lui stesso ieri avrebbe confermato commentando l’esito del voto a Montecitorio. Ma è pur vero che in questa fase nel Pdl si sono rimesse in moto le correnti e le cene, le riunioni, i summit più o meno carbonari di questi giorni dicono che nel partito si è riaperta la corsa al dopo. E non è certo passato inosservato il ragionamento che lo stesso premier ha fatto incontrando alcuni giornalisti stranieri, ventilando l’ipotesi futura di un suo passo indietro, rilanciando Angelino Alfano come suo successore e candidando Gianni Letta al Quirinale. Ipotesi rilanciata dal Wall Street Journal che, sul suo sito web annuncia l'intenzione del Cavaliere di farsi da parte. '”Se ci sarà bisogno di me come padre nobile, sono disponibile. Potrei essere capolista, ma non voglio un ruolo operativo”, sono le parole virgolettate attribuite al Cav. dal quotidiano statunitense. Stessa lettura dal Guardian che titola: “Berlusconi ha annunciato che non correrà alle prossime politiche del 2013 e ha indicato in Alfano la persona alla quale intende affidare il partito”.
Dall’entourage del premier si fa sapere che la premessa di Berlusconi è stata “dipenderà dai sondaggi” ma ciò che ieri in Transatlantico molti deputati pidiellini rilevavano è il fatto che il premier sia perlomeno tentato dall’idea di farsi da parte una volta condotta in porto la legislatura. Del resto il passaggio della conversazione con i cronisti esteri fa il paio col ‘messaggio’ consegnato a Giuliano Ferrara che domenica dalla colonne del Giornale ha evocato il sogno di un Cavaliere che avverte i suoi: attenzione, potrei mollare. E’ pur vero che nei ranghi del partito si legge tutto ciò come una tattica per calmierare i movimentismi interni al Pdl, il raffiorare delle correnti e riportare tutti alla ragionevolezza e alla coesione. Allo stesso tempo, può essere un modo per spronare tutti alla competizione, anche nei confronti della Lega, specie in questa fase nella quale i sondaggi parlerebbero di un calo di consensi per il partito del Senatur.
Certo è che nonostante la prova di compattezza dimostrata ieri a Montecitorio nel Pdl le acque restano agitate. Ieri sera alla cena degli scajoliani si è tornati a puntare l’indice sulla necessità di un coordinatore unico alla guida del partito (Denis Verdini) e di un riconoscimento politico per l’ex ministro dello Sviluppo economico che può contare su una sessantina di parlamentari e che non meno di qualche settimana fa in un’intervista evocò la possibilità di costituire gruppi parlamentari autonomi se nel partito non si fosse cambiato registro. I fedelissimi smorzano il clima e ribadiscono che non c’è alcuna divisione, si marcia compatti, ma al tempo stesso fanno capire che la “tregua” è solo rinviata a dopo le amministrative.
C’è poi la questione dell’integrazione tra ex Fi ed ex An con questi ultimi intenzionati a riempire gli spazi lasciati dai finiani e in questo senso la ‘partita’ vedrebbe impegnati gli alemanniani e i matteoliani piuttosto critici nei confronti di La Russa, sia per il doppio incarico di ministro e coordinatore del partito che per la questione di incarichi e nomine che a detta degli aennini più malpancisti avrebbe penalizzato le aspettative di quanti non gravitano direttamente nell’orbita larussiana.
Un tentativo di riconciliazione è in programma stasera nella cena dei ministri e dei capigruppo di Camera e Senato all’hotel Valadier. Servirà a spengere il fuoco che cova sotto la cenere, non solo nel partito ma anche nel governo dove alcuni ministri hanno da tempo messo nel ‘mirino’ Giulio Tremonti
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